Dopo aver citato sempre sul nostro blog il testo Alatri ed il suo vernacolo di Padre Igino da Alatri, era..

Venerdi 10 maggio, in una splendida cornice di pubblico, il nostro Gruppo..

La parola Pasqua deriva dal vocabolo ebraico pesah, che vuol dire passaggio.
Anticamente, celebrava il passaggio dalla stagione invernale alla primavera, nella prima notte di plenilunio del 14 di nisan (mese ebraico corrispondente al nostro marzo-aprile).
E’ in quella notte che Mosè, attraversa il Mar Rosso e fugge dalla schiavitù egizia.
In un altra notte, quella appunto della parasceve, Gesù risorge dalla morte.
Tuttavia, quando celebriamo la Pasqua, si rischia un pò di ripercorrere un evento che sembra sfuggire alla nostra esperienza quotidiana. Eppure, aldilà della resurrezione finale, (quella dopo la morte secondo la dottrina cristiana ), la Pasqua può essere una esperienza ordinaria.
Non solo un evento straordinario di natura divina, ma lo straordinario evento che ognuno di noi, può realizzare nelle cose di ogni giorno.
Fare Pasqua significa fare un passaggio: passare da scelte timide a decisioni definitive; passare dalla falsità di tante nostre relazioni, alla costruzione di legami più sinceri; Risorgere da un fallimento, per reinvestire sulla speranza di un successo; Risorgere dalle sconfitte, dagli errori, dagli sbagli che ognuno di noi porta dentro, per sperimentare il gaudio della fedeltà, il profumo della libertà, la freschezza di un cuore nuovo.
Perché la resurrezione è qualcosa promesso a tutti, poiché ogni giorno ci è chiesto di far morire qualcosa che ci attanaglia e crea fatica per scoprire invece la libertà di una vita vera.

di Gabriele Ritarossi

Oggi, ad Alatri, si celebra la traslazione delle reliquie di San Sisto I da Roma ad Alatri.
Quest’anno, per la prima volta nella storia della nostra città, avrà luogo la rievocazione storica di ciò che accadde, secondo la narrazione Historica, l’11 di gennaio del 1132.

Mia nonna Iolanda, la sera del 10 gennaio, era solita raccontarmi “la venuta di San Sisto” colorando la narrazione di particolari come quelli legati a “chigli zic sole che chigli ommini fori d ‘pòrta, se stavan a tòll pe r’scallass ” alle prime ore del pomeriggio, quando una mula, improvvisamente, varcò le mura di Alatri.
Si tratta di una storia incredibile quella relativa all’arrivo delle sacre reliquie di San Sisto ad Alatri. Una storia che da sempre i nostri nonni ci tramandano con dovizia di particolari quasi a voler rafforzare un privilegio di cui siamo chiamati ad esserne eredi.
Mentre mia nonna proseguiva nel racconto, la mia fantasia cercava di immaginare la scena della gente che in quel giorno si riversava per le strade e i vicoli di Alatri: accorreva meravigliata a contemplare qualcosa di incredibile, sotto gli occhi stupiti di chi, lentamente, iniziava a capire che un giorno normale stava per trasformarsi in una data storica che avrebbe segnato per sempre, la vita e l’identità del nostro popolo e perchè no, anche quello degli Alifani a cui le reliquie era destinate.

Ad Alatri, mancava un “patrono” e pur essendo molte le possibilità di individuarne uno tra la schiera dei santi, è accaduto che questo arrivasse inaspettato con un nome sconosciuto, per diventarne il simbolo di coesione e di fratellanza.

Rivivere oggi quel pomeriggio dell’11 gennaio di 887 anni fa, sarà un momento prezioso, perché ci porterà a celebrare non solo la nostra identità e le nostre radici ma ci ricorderà, soprattutto, che Dio sa trovare percorsi incredibili e riportarci a casa anche quando i nostri progetti sono diversi e le nostre strade sembrano dirigersi altrove.
Siamo figli di una terra pazzesca, che ha assistito ad eventi incredibili e bizzarri, come quelli di una mula testarda che tuttavia ci ha insegnato il sapore buono di una storia meravigliosa che mai nessun futuro, nemmeno il più avaro, saprà farci dimenticare.

Gabriele Ritarossi

Il Natale a casa mia era come un pendolo che oscilla incessantemente tra un sano e genuino spirito natalizio e un “l’ faciam purché s’ tè da fa’”, passando per l’intervallo fugace, e per di più illusorio, della speranza di non svuotare il dindarolo come ogni anno alla tombolata con gli zii.
La preparazione degli addobbi, il sentirsi ogni anno più grande perché mancava sempre meno a riuscire ad arrivare a mettere il puntale sull’albero, quell’inspiegabile libidine che si provava nel premere il pallino rosso sul telecomando che, come per magia, faceva accendere tutte le lucine della casa, quella puzza di bruciato perché qualche lucina si era surriscaldata troppo e aveva mandato a fuoco il muschio nel presepe, le urla della nonna che inveiva contro il nonno con un sonoro “si più uttr’ di issi”…

Il giorno più bello per noi bambini era senza dubbio quello della Vigilia.
Il suono degli zampognari tra i vicoli di Alatri rendeva meno traumatica la sveglia di buon mattino perché tua madre, armata di parannanza e scopettone, ti veniva a svegliare per farti mettere in ordine la camera, ché la sera c’era gente.
Lo scambio dei regali, la recita della poesia e le mille lire sotto il piatto (che poi arrotondavi con qualche altro spiccio concesso dal nonno sottobanco), la saraca condita, il primo panettone (primo di una lunga ed interminabile serie) e poi tutti di corsa a messa, con l’ansia che Babbo Natale arrivasse prima del tuo rientro.

Se la mattina del 25, sotto l’albero, ti aspettava più di qualche sorpresa (perché Babbo Natale le tue letterine evidentemente le perdeva ogni anno), ciò che non era una sorpresa, puntuale come un treno in Giappone, era tua nonna che, alle sette di mattina, suonava alla porta con un piatto fumante di frittelle fatte con la pastella avanzata delle particelle fritte destinate al pranzo.

Dopo ore ed ore di devota preparazione, eccolo: il pranzo di Natale!

Quello che sai quando ti siedi, ma nessuno sa quando, se, ti alzerai da tavola; quel pranzo che ogni anno “so’ fatt’ propria du’ cosette” e poi appena arrivi la nonna ti mette davanti le già citate particelle di cime e baccalà per preparare la mandibola e la stracciatella col brodo di gallina per riscaldare lo stomaco. Ma non è festa senza timballo, che per l’occasione si è trasformato nell’Empire State Building delle leccornie. Ma du maccaruni co zic sughitt “legger legger” ‘n ci gli mitti?! Ma si, magna che va p l’anima dei morti!
E poi: il lesso della gallina già nominata prima (purché è puccat ittalla), l’arrosto misto, le patate, i broccoletti che “sgrassano”…dopotutto, chell che ‘n ‘ntorza ‘ngrassa!

Chi ce l’ha fatta arriva al dolce: il panpepato, gli struffoli, i quadrucci, i tartalicchi, le ciambelline ruzze azzuppate al vino di nonno, la ratafia casereccia, la genziana di zio, il limoncino del vicino, la tombolata con le lenticchie sulle cartelle, il panettone che ha portato la zia, quel comico di tuo cugino che grida “Ambo!” ed è uscito solo un numero, le lenticchie che si spostano in continuazione dalle caselle e qualcuno che chiede se il 23 è uscito, “Undici! Zeppetti”, le storie e le leggende della gioventù, di quando c’era la guerra e di quando si stava lontani da casa per il servizio di leva, quelle storie che ormai sapevamo tutti a memoria, ma che pagheremmo per sentirle ancora, quelle storie e quei ricordi che sono un modo per incontrarsi, per riviversi, per non perdersi e che a Natale, puntuali come lo era la nonna con le frittelle, tornano a galla e ti aspettano, a braccia conserte e con il piede martellante, sotto l’albero, tra panettoni e cesti regalo.

 

Giulia D’Alatri

Cosi scriveva molti anni fa il nostro Sor Flavio; una riflessione che se pur datata potrebbe risultare attuale ai cultori delle tradizioni popolari, e come ricordava sempre: nel folklore e nella danza c’è l’animo di un popolo:

“Oggi il folklore ed il ballo italiano sono come li descrisse il piemontese Vajra «i grandi decaduti”: questa l’affermazione che si riscontra nel’ importante saggio sulla danza tradizionale.
ln verità non si può far storia delle religioni, della musica, del teatro, delle tradizioni popolari senza tener conto del folklore in genere e della danza in particolare.

Se noi consideriamo la condizione e la funzione della danza nella società italiana e la confrontiamo con la posizione che occupava e la considerazione in cui era tenuta nei passati secoli, dobbiamo senza meno riconoscere quel che asseriva il Vajra nel 1875, epoca in cui i veglioni carnevaleschi costituivano ancora un avvenimento popolare di grandissimo rilievo; epoca in cui non c’era manifestazione, non c’erano nozze che non terminassero con il tradizionale ballo: oggi tutto sembra esaurirsi e con rammarico si assiste alla discesa di questi valori coreutici e folcloristici.
Quando poi al posto occupato dalla danza nel folclore, anche se ormai in molte regioni non occupa più la posizione di grande rilievo che aveva un tempo, essa è pur sempre legata alle più pure espressioni tradizionali sia per il ciclo della vita umana, sia, e principalmente, per i lavori agricoli.

Ma è il caso di domandarci cosa sia stato fatto in Italia nora di veramente serio per una conoscenza storico-critica, basata su documenti, registrazioni di canti e di musiche per danze, affidate ai modernissimi mezzi sonoro-acustici e se anche per tutto quanto concerne il folklore contemporaneo?
Poco, pochissimo, eccezion fatta per qualche e registrazione di motivi ristretti ad una sparuta cerchia di paesi quando invece l’Italia, dalla Sicilia alla Sardegna, dalla Lombardia alla Ciociaria, alla Calabria è tutto un campo fertile per riportare alla luce motivi musicali di danze e cori come mezzo idoneo, il più adatto all’affermazione dei valori intrinseci del nostro folclore.
Si sente dire… “che bei costumi…che bei canti..che belle danze”; si vedono sorridere gli occhi per la gioia, quando inizia uno spettacolo di folclore ma più di questo nulla, mai nulla.

Eppure un grande figlio della Ciociaria, Anton Giulio Bragaglia, ha speso tempo prezioso per dedicarsi ad uno studio particolareggiato del folclore e della danza <Danze popolari italiane>  per offrircelo a ricordo di tempi non superati ma rimpianti dalla maggioranza.

Questo libro è l’immagine di uno studio profondo, condotto con un rigore critico: una ricca messe di dati, di notizie, frutto di lunghe, pazienti ed utili ricerche.
In Italia e quindi anche in Ciociaria, la zona che maggiormente ci interessa ed alla quale tanto teniamo, occorre intraprende seriamente studi sul nostro folclore e sulle nostre danze.
Occorre riportarle in “auge” per offrirle ai tanti turisti che visitano le nostre zone come il miglior ricordo di questa nostra terra ciociara ed in questo sforzo non sia inutile ricordare che l’Italia, che oggi è invasa dalle danze straniere, dal valzer alla polka, dal tango al rock and roll ora al madison, nei secoli ha insegnato il ballo a tutta Europa.

Non sarebbe male se tutti gli intenditori prendessero l’iniziativa di compiere studi in tal senso, di far incidere appositi dischi, riportare a nuovo i nostri canti dell’aia, dei campi formare gruppi di danzatori, di cantori del folclore. Saranno i responsabili e gli esperti a sancire queste forme di rieducazione popolare attraverso ampi e sereni dibattiti. Quanto verrà fatto per promuovere sul piano pratico lo studio della danza popolare italiana, ed in particolar modo ciociara, costituirà un contributo prezioso per la messa in valore di una delle espressioni più spiritualistiche ed esteticamente felici delle geniali qualità artistiche del popolo italiano. Abbiamo visto gruppi folcloristici esteri organizzati a spese dello Stato: parlo dei gruppi iugoslavi, polacchi, francesi, cecoslovacchi, spagnoli: non ne abbiamo incontrati in tal senso italiani. E’ davvero una lacuna riprovevole.

Il Gruppo Folcloristico di Alatri, che continuamente visita città italiane ed estere, sa il valore della bellezza della danza e del folclore italiano, principalmente ciociaro, dei canti e delle danze ciociari, perche sono gli applausi incondizionati, i premi conseguiti, i rinnovati inviti che testimoniano quanta simpatia in ogni contrada di Italia esista per la nostra Ciociaria: il nostro folclore, così come dicono i giornali, è addirittura “signorile”.
E noi, lungi dai ronzii di questa dannata vita moderna, ci dovremmo sentire invitati ad un ritorno alla serenità, alla pace, ai nostri campi, cosi come accadeva anticamente quando tutte le mamme, attorno al focolare, ove crepitando si consumava un vecchio ceppo, raccontavano le favole che ci facevano più buoni, più sereni fino a farci cantare, a farci danzare spensieratamente.
Tempi scomparsi, ma che potrebbero tornare con la buona volontà di tutti, se davvero ci sentissimo custodi delle nostre belle e pure tradizioni popolari una volta ritrovatele: e ciò principalmente per la valorizzazione di questa nostra troppo depressa, ma tanto amata terra ciociara.

 “Sor” Flavio Fiorletta

16/07/14 – 04/10/2007

Sulla strada Santa Cecilia, immersa nel verde delle campagne alatrensi, ai piedi di un piccolo colle, il Monticchio, c’è un edificio comunemente chiamato Castello, ma che castello non è.
Informazioni sulla storia e soprattutto sulle caratteristiche della struttura si possono trovare online, ciò che qui viene messo in evidenza è invece l’aspetto socio-economico che la presenza del “castello” ha avuto nel nostro territorio.

Nasce come “grancia”, cioè deposito di grano, ma il termine viene utilizzato successivamente per definire il complesso di edifici costituenti un’azienda agricola.
Infatti la sua funzione era ancora più ampia, in quanto vi lavoravano numerosi contadini del territorio.
Oltre alla produzione di cereali, si allevavano bovini, suini e ovini, si produceva vino, tabacco, frutta e olio, molito direttamente dal frantoio aziendale e che veniva conservato in otri di terracotta di grande capienza.
In più, la fiorente attività era resa possibile dalla realizzazione di un laghetto artificiale e di un impianto di irrigazione ancora visibili.

Per quanto riguarda i cereali in particolare, la grancia disponeva di macchinari per la selezione di sementi così articolata: una prima selezione per le future semine, la seconda per la produzione di farina e un’ultima per alimentare il bestiame.

Altra caratteristica dell’attività nel castello era la presenza della “ritorna”, un manufatto circolare in sassi (usato per domare i cavalli) che nei caldi pomeriggi di estate era luogo di ristoro e riposo dei contadini prima di riprendere il lavoro.

A conferma dell’importanza rivestita dal castello, in tempi in cui l’agricoltura era la principale attività del territorio, il duro lavoro dei coloni e la lungimiranza dei proprietari sono stati premiati con vari riconoscimenti di eccellenza a livello nazionale dagli enti preposti.

Tutte le attività lavorative della grancia erano ben organizzate e coordinate dall’amministratore, nonché mio nonno: infatti proprio da questo ruolo deriva il soprannome della mia famiglia: “i Ministr’”.

Attualmente il castello è di proprietà privata e non vi è possibilità di accesso e personalmente lo ritengo un vero peccato!
Sarebbe bello e istruttivo poter visitare quel che in passato era il fulcro della vita contadina di questa contrada.

Per approfondire lo Statuto del “castello” basta un click QUI.

Carla Scarsella

Come non ricordare Sor Flavio, il giorno della ricorrenza, con questa bellissima poesia dedicatagli dall’amica Marilena Lepori! 

‘Sta piazza stasera mê sémbra ‘ncantàta,
nê wò fa rêwiwê ‘na storia passata.

Èra da pócô finita la guèra:
cràlêmê amarê piagnéwa ‘sta tèra…

‘Nô alatrésê pêrò, ‘nê sê attèra ‘mmai:
sà sèmprê rêsórgi da tutti gli guai!

Scórta la famê, chélla più nera,
ariwà pê tutti la wita wéra…

I fu própria allóra, carô “sòr Flà”,
chê ‘sta cumpagnìa wulìsti crià.

Cu ‘mmani ‘nô òrghini pê ‘ncumênzà,
purê gli ciunchi facìsti ballà!

…Pandòra purtawa ‘nô fiascô dê winô,
cantènnê biweva, cu Scórcia i Peppinô…

…i déntrô ai canìstrô dê zia Sistinèlla
sèmprê ci stawa ‘na crustatèlla!

Pê tuttô gli munnô nê purtasti a ballà,
i pê fa cunósci ‘sta cara città,
purê déntrô a ‘nô film la wulisti ‘nfilà!

Mó tu, sòr Flà, nê stai a guardà:
i da chéllê stéllê wularisti calà…

Ma pê nua stai a écco, mésê a ‘sta gèntê,
sóttô a ‘sta luna chê parê d’argèntô.

Èccô sòr Flà, stannê a guardà:
‘nô sardarèllô mó iamô a ballà.

Battamô gli témpô cu gli tamburégli:
spêramô dê fa gli munnô più bégli.

Sarda i rêsarda, gli fiatô sê accórcia:
a tutti quanti gli mussô sê aróscia…

“Vola la spòla”, pê siguità…
…i méntrê sê canta, nê sê pò a tì nê pênsà!

È chésta l’artê chê nê si ‘mparatô:
grazzi “sòr Flà”, padrê nóstrô aduratô.

Gli munnô cammina, nê sê pò furmà:
mó attòcca a nua l’opêra téa siguità.

Tutta Alatri stasera tê wó rêcurdà:
i tu, da ésci ‘ncima, stalla semprê a guardà!

 

Al mio maestro  – Marilena Lepori