Sempre grazie alla sempre lucida memoria del nostro amico Amicalcare Culicelli, ci pregiamo di pubblicare un suo ricordo:
“Questa me l’hanno raccontata negli ultimi anni ’50 dello scorso secolo, quando insegnavo nella scuola serale a Vallemiccina, una contrada a sud di Alatri e chi la raccontava aveva 91 anni e diceva ancora che dopo questo fatto scappò di casa per andare con i “garibaldesi”.
Bisogna sapere che allora la scuola serale si faceva presso famiglie disponibili ad ospitarla ed era frequentata, oltre che dalla famiglia, ancora patriarcale, dalle persone interessate, per lo più vicine di casa.
Spesso, nelle lunghe e noiose giornate d’inverno, si andava oltre il leggere, scrivere e far di conto e si stava intorno al camino come in famiglia.
Forse, il fatto si può ascrivere al tempo immediatamente precedente alla presa di Porta Pia, 20 settembre 1870, quando, ricordo di aver letto in un giornale dell’epoca, il “brigante” Garibaldi si aggirava nel sud dello Stato per depredare.
Forse chi raccontava, confondeva i suoi ricordi e faceva sue le esperienze che gli erano state raccontate da altri; Ma, che il fatto fosse vero,  era suffragato dai più anziani presenti,  che lo avevano inteso raccontare e, soprattutto la figlia che diceva che gli era stato raccontato dallo zio, fratello maggiore del padre, insieme ad altre avventure con i “garibaldesi”.
Appena i “garibaldesi” arrivarono, conquistarono subito il Castello di Tecchiena (che allora era una grancia della Certosa di Trisulti) e intimarono ai frati di consegnare il tesoro.
I frati negarono di avere tesori e allora Garibaldi (proprio lui?) minacciò di fucilare un frate ogni dieci minuti fino a quando il tesoro non fosse stato consegnato; passarono dieci minuti e i garibaldesi presero un frate e lo trascinarono via.
Dopo la scarica di fucileria,  i poveri frati hanno avuto appena il tempo di recitare le preghiere della buona morte per il confratello,  che i garibaldesi prendono un altro frate e lo trascinano via.
E passano ancora dieci minuti e ancora, ancora e ogni volta, alle scariche di fucileria, i poveri frati recitano le orazioni della buona morte e negano di avere tesori. – Una strage- .
La scena madre: Erano rimasti, alla fine, il più sempliciotto dei fraticelli e il padre priore ed allora
Garibaldi (?) ordina di portar via il priore.
Il reverendo padre no!” esclama il fraticello gettandosi ai piedi di Garibadi (?). Chiede pietà e si offre al posto del priore, ma Garibaldi (?) è irremovibile e i garibaldesi trascinano via il priore.
A questo punto, per salvare il reverendo padre, il fraticello indica il nascondiglio del tesoro e accompagna i garibaldesi.
Colpo di scena.
Al ritorno il fraticello trova il padre priore e tutti i frati che cantano il “Te Deum” per lo scampato pericolo e pregano per la conversione dei briganti garibaldesi e dei senzadio che combattono la Chiesa.

Amilcare Culicelli – fonte:  Forum Monti Ernici


Giuseppe Maria Garibaldi (Nizza, 4 luglio 1807 – Caprera, Arcipelago La Maddalena, 2 giugno 1882) è stato un generale, patriota, condottiero.
Immagine di copertina, fonte:www.inuovivespri.it

Amarcord… si, ci piace ricordare e far ricordare momenti passati della attività del nostro Gruppo. Dopo il racconto di Alberto Minnucci, ci onoriamo di ricordare un’altra “grossa” figura della nostra città, Giuseppe Fiorletta, amichevolmente per tutti noi “Peppinuccio”… e lo facciamo con un suo scritto:

E’ difficile ricordare quei momenti. Quando provi a farlo ti si addensano nella mente centinaia di episodi. E’ una folla di sensazioni che vorresti affidare alla macchina da scrivere per scegliere quelle più significative, più originali. Ma non ti riesce. Sono avvolte in una nebbiolina tutta rosa. E’ un velario troppo prezioso e ti vien voglia di tenerlo sempre così: a guardia dell’età più bella. A proteggere ricordi che hanno costellato quegli anni rendendoli spensierati e nel-lo stesso tempo utili ad una cultura personale. Ti lasci andare. Accendi una sigaretta pensi. . . Pensi alle ciocie, alle strenghe, ai calzettoni. Pensi a quei volti di ragazzi stranieri amanti di amicizie sincere. Si staglia dall’orizzonte di allora la figura caratteristica di una città, il tran tran di treni internazionali pian piano torna a farsi udire. Eccoci, tutti assieme. Le donne in uno scompartimento e gli uomini nell’altro accanto. Fuori vigila Flavio che fa finta di gustarsi i paesaggi che corrono via. La partita a carte. Una canzonetta in coro. La voglia di bere qualcosa che non si ha. Qualcuno ha scovato un thermos di caffè. Un po’ di manovre e il liquido nero cambia contenitore; quello di prima va a finire sotto le ruote del treno. E si giunge a Parigi. Nestore ha scommesso che ci farà passare una bella giornata. Proprio lui, che a Torino aveva vinto un’altra scommessa tracannando d’un fiato una bottiglia di Barbera. Parigi-Le Mans. Sempre in piedi a far la corte alle ragazze di Cosenza… un timido sorriso, un approccio, un ciao schietto che promette bene. Poi gli aperitivi francesi. La sfilata. Le battute di mano. Il nome di Alatri che viene letto con interesse da tutti coloro che hanno avuto dalle mani di Pinuccio il dépliant.  Ma le immagini sbiadiscono. Avanzano nella mente quelle di «Italia ’61›› a Torino.
Quelle di Lecco, di Susa, di Milano. Il volto di Maria Teresa si confonde con quello di Cyllj la lussemburghese.  Poi con quello di Sabrina di Monaco. Altri volti. Un albergo dove la notte si gioca ai fantasmi tra l’ilarità generale. Ed ecco un altro villaggio francese.
Una ragazza che piange disperata. .. un amore che sboccia e un altro che si incrina.
Ed ancora in Italia: Roma, Ragusa, Catania, Montefiascone…  Renzo deve partire. È il destino che tocca ad ognuno di noi. Ma per Renzo si piange. Scorcia lo abbraccia. Tutti cercano di scherzare gioiosamente come quando si era in piena manifestazione dove bisognava tenere alto il nome dell’ Italia e di Alatri in particolare. Uno scherzo gioioso a parole,  mentre dentro, profondamente dentro, tutti sentono che qualcosa si è staccato ed è rimasto lontano …  tutti gioiscono veramente, anche intimamente per la sistemazione trovata, come per la riuscita esibizione sottolineata da fragorosi applausi.

Questo è stato il Gruppo Folcloristico per me.

di GIUSEPPE FIORLETTA

 

Ci racconta, Luigi Alonzi nel suo viaggio in Ciociaria, “Itinerari di Cioceria” del 1964, incontrando la nostra città,  in una giornata di maggio:

A vespro mi incamminai verso il convento dei Cappuccini, seguendo l’indicazione dei cipressi svettanti sulla collina di fronte alla città, in direzione di borea. Scendevo da Alatri sulla Sublacense, precisamente nel punto in cui i due colli, quello del Convento e l’altro dell’Acropoli, spezzano la discesa per stringersi la mano e reggere il nastro asfaltato della via romana. Una pioggerella sottile, ma più spesso allegra, tagliava l’aria di traverso. Prossimo a tramontare, il sole illuminava tratti di campagna coltivata a grano, e la faceva sorridere, intensa e distesa, tra le alberature del viale fuori di Porta San Francesco. Sul Convento piovevano le luci di un duplice arcobaleno. E io mi tolsi il cappello, ai primi tocchi della campana, e lasciai che la primavera mi ribattezzasse sotto le luci scendenti di una giornata di maggio.
Alatri. Quante rondini a primavera nel cielo di Santa Maria Maggiore, sulla città costruita di pietra, nuova e serena in ogni età, sorta dalla roccia in ogni tempo.
< Non avevo visto città di così bell’aspetto nei monti del Lazio – scrive Ferdinando Gregorovius, – e non ve n’è un’altra di architettura così spiccatamente gotico-romana>. Ma qui, il 1222, reduce da Subiaco e diretto a Gaeta  salì il Poverello d’Assisi e Andrea  da Pisa fusero nel 1303 la campana maggiore della chiesa il San Francesco: qui artefici il cui nome rimane troppo spesso ignorato, tra i secoli e palazzi alla maniera toscana, toscani in parte essi stessi.
Qui l’ arte dei pannilani,  fiori per tempo, e all’ epoca in cui il collegio dei Consoli, il 1173, si mostra per prima volta a indicare che una suprema magistratura vigila sulla organizzazione cittadina, i telai già battevano.  E le arti, nel Comune nascente, cominciavano a raccogliersi in corporazioni di diecine, centinaia di fratelli. Come a dire che l’energia e il civismo dell’antico municipio romano riprendono a destarsi, sensibili all’orgoglio delle opere di pubblica utilità, solleciti al lavoro e all’arte animati di nuova poesia cristiana,  pronti – nell’impeto del risveglio – a conquistare i territori finitimi e a  difenderli dopo la conquista.  Diciotto anni dopo il passaggio di san Francesco, che ad Alatri lasciò il mantello quasi a sigillare nell’amorevole dono, il riconoscimento del recente fervore, fa apparizione nella storia alatrina il primo < podestà>, magistrato supremo e forestiero.  E  l’avvio della produzione dei cardati, dei tappeti e dei feltri con un ritmo largo e accelerato, sì che anche nei paesi lontani ne correva la voce,  e in Alatri città comunale si aprivano mercati e fiere, eleggendovi la marcatura cultori sagaci e devoti .
Si generano così anche in Alatri comunalistica, le attività guerriere e conquistatrici ai danni dei castelli vicini, l’urto interno delle classi, le ire di parte e le offese ripagate col sangue: il ripetersi in piccolo, cioè, di quanto la storia medioevale sa offrire in esempi più vistosi.  E poiché l’arte è vita e  specchio di vita, ecco sorgere nel clima del Comune la robusta semplicità delle chiese di San Francesco e di Santo Stefano, Santa Maria  Maggiore col campanile e la stupefacente rosa sulla facciata, e San Silvestro mistica sinfonia di colori; ecco la casa-torre del cardinale Gottifredi, dai grandi portali,  dritta come una alabarda, e i palazzetti del Trivio,nei quali l’amore del visibile scende ad adornare il luogo delle contrattazioni; ed ecco, con gli ultimi arricchiti, con la recente piccola e media borghesia, la demolizione degli abituri di tufo scuro, raramente e rozzamente imbiancati, ed in sostituzione sorgere numerose abitazioni in pietra scalpellata, sovrapposizione rettilinea di massi rettangolari o quadrati, rosei allora come il volto di queste argute popolane. Memore forza e amor novo spiranti fanno il Comune anche qui, dove, dall’alto, domina ancora il paesaggio  la più superba acropoli italica e mediterranea; e dove, nell’età repubblicana di Roma, Lucio Betilieno Varo, benemerito censore alatrino, aveva già rinnovato la città con un ardito piano regolatore: tracciando a nuovo tutte le vie e rifacendole, unendo il nuovo all’antico nella ideazione di un portico per il quale si accedeva alla Rocca, e costruendo il campo sportivo, il bagno pubblico, l’acquedotto, l’orologio solare, i sedili, il mercato dei viveri, e ponendo termine ai lavori della basilica. Esempio unico in Ciocerìa, lo stile architettonico di Alatri riecheggerà quello delle città toscane, e non poco,  della sua storia interna tende ad avvicinarle. Diresti che il sangue etrusco della sua prima civiltà – il secolo in cui fu costruita l’Acropoli, segno evidentissimo e storico rimasto per lunghi secoli delle gesti alatrine. E direstii ancora che quei germi remotl siano stati ravvivati dai contatti non certo casuali avvenuti in età posteriore, specie quando la via Sublacense, cui Alatri fu stazione quasi unica di transito e certo la più importante, si apriva al traffico delle genti di Campagna ma specialmente agli scambi  culturali e artistici del due piu famosi monasteri dell’ Occldente,  Subiaco e Montecassino.
Al limitare del sobborgo, mentre una ventata di pioggia scrosciante accennava all’acquazzone, scorsi un gruppo di popolane che in fretta e leste toglievano le biancherie tese ad asciugare. Alcune correvano e si agitavano dai balconi e sulle logge, altre lungo gli steccati che  recingevano gli orti o i fili di ferro distesi davanti alle abitazioni. Una bimbetta scalza, trepidante, s’aiutava a sciogliere la capra legata all’unico olivo del suo campicello; vedevo la bestiola nasconderle il muso tra le vesti per evitare  sugli occhi il fastidio dell’acqua. Colsi una scena preziosa, e vorrei dire commovente. Sull’uscio dell’ultimo caseggiato , una madre col suo piccolo in braccio, tenendo la palma aperta sul capo della creaturina,  provava ad uscire e rientrava.  E intanto la vedevo accennare, e gettare esortazioni a gran voce, quasi minacciando. Sollevando l’occhio nella direzione capii finalmente il perché.  Un marmocchio di cinque sei anni, senza giacca, con le brachette a mezza gamba, tirava per quanto poteva la cavezza di un somaro piantato sulla strada, restio ai richiami e beato della pioggia. A ogni strappata, come non fosse affar  suo, la bestia si limitava a sollevar la testa e a scrollare le orecchie; e l’altro, più duro, a tirare e a dirgliene di tutti colori: secco, mordace, secondo lo  stile imprecatorio della commedia plautina 
<Dei te posint ancidere>, – da noi ancor vivo d’una rude freschezza. Rigagnoli d’acqua gelida gli colavano giù per il collo, e la camiciola era un cencio. Stanco e incapace lo vidi piangere ma senza restare dal tener la corda, che seguitava anzi a tirare con quanto di forze gli rimanevano, il pie’ destro in avanti, la schiena all’indietro. Quasi che una innocentissima innaffiata di primavera avesse potuto portaglielo via il suo somaro, il somarello bigio di casa, prezioso e indivisibile come l’anima sua.

Si ringrazia Anna Maria Fiorletta

 

Una ciociara con la conca ed un fiore in mano, rivolta verso il Palazzo delle Esposizioni di Roma, perché? Qual è il nesso? Cercherò di spiegarlo affidandomi ai ricordi, ad alcune foto, poche in verità  e a qualche articolo di giornale.

Taglio del nastro con al centro Il Gen Aloia, a destra il Comm. Silvio Biondi e l’artista Valeriani

Nel settembre 1962, alla presenza del Capo di Stato Maggiore  Generale Aloia (in rappresentanza del Ministro Giulio Andreotti intervenuto successivamente) venne inaugurata presso il Palazzo delle Esposizioni di Roma (nelle due gallerie) la mostra “La Ciociaria vi presenta”.  A fare gli onori di casa,  il Comm. Silvio Biondi, Presidente delle Associazioni tra i Ciociari di Roma e organizzatore della rassegna.
In quell’incontro,  la terra ciociara fu presente,  al suo più alto livello,  con l’intera gamma delle espressioni artistiche, dalla pittura e scultura alla ceramica, dalla letteratura  alla saggistica,  sino alle varie e multiformi attività artigianali, dimostrando di non essere solo terra di pastori.

Il Dott. Franco Evangelisti di Alatri ammira insieme al Comm. Biondi opere dello scultore Giambelluca

Il Comm. Biondi riceve il ministro Giulio Andreotti

Opere di valenti pittori antichi e moderni, italiani e stranieri, fecero gustare paesaggi, antichità storico-artistiche e figure tipiche della Ciociaria. Scrittori piccoli e grandi, Cicerone, S.Tommaso d’Aquino, Giovenale, Maiuri, Bragaglia e tanti,  tanti altri, fino a quelli moderni che avevano illustrato le bellezze della nostra terra. Non meno importante la presenza delle magnifiche opere dantesche e pascoliane di Padre Luigi Pietrobono di Alatri, di Padre Igino e Padre Mariano d’Alatri. Non mancavano i prodotti di valenti artigiani i cui lavori fecero conoscere ed apprezzare le capacità raggiunte. Per quanto concerne Alatri un richiamo all’antico lo offriva l’Oreficeria Pelloni con i suoi coralli tradizionali semplici e pesanti, gli orecchini d’oro di varia foggia e misura e i famosi “pennenti delle nostre nonne. Alessandro Folchi espose una sella riccamente lavorata, insieme ad altri manufatti. Molto interesse suscitò un telaio già approntato per la tessitura e con intorno esposti vari lavori, testimonianza del faticoso lavoro delle  Tesserelle delle Piagge che tanta fama avevano contribuito a dare al panno  di Alatri

 

Quasi  a completamento della manifestazione fu organizzata nei giorni successivi (la mostra durò 10 gg.) una “Caccia al Tesoro” in Ciociaria, intesa come richiamo per un risveglio dell’interesse verso itinerari che natura, origine e arte avevano posto nelle vicinanze di Roma. Molti furono i partecipanti, spesso famiglie al completo, che dalla Capitale si diressero verso i luoghi ciociari indicati dalla ricerca dei “Tesori”.

Ad Alatri,  furono accolti presso il Circolo Amici, dove venne loro offerto un liquore di benvenuto, mentre ponevano domande per captare notizie attinenti alle risposte da dare. La gente, in paese, si mostrò incuriosita e alla fine contribuì a dare indicazioni, riscoprendo con loro,  le bellezze del proprio paese.
Non fu solo ospitalità, ma compiacimento di tutti nei confronti di quanti avevano riempito le strade di Alatri per rendere omaggio alle cose che sono più care, perché restano durante l’arco di tutta la vita.

Fu chiesto se fossero rimasti soddisfatti, la risposta fu unanime “meglio di cosi non poteva andare, state pur certi che torneremo per nostro conto a vedere Alatri ancor più da vicino”!

Depliant di Alatri distribuiti durante la manifestazione

La manifestazione di Roma fu definita, simpaticamente “ La calata dei Ciociari a Roma” e nelle vetrine di Via Nazionale,  furono esposti quadri di soggetti ciociari e slogan invitanti a visitare la Ciociaria. Molti i depliant su Alatri che Flavio Fiorletta aveva fatto stampare e che ragazze in costume distribuivano.

Frequenti erano i contatti tra Alatri e l’Associazione, fu un canale attraverso il quale molti personaggi e artisti vennero nel nostro paese come espositori nelle mostre d’arte, come componenti delle giurie, ma anche in visita privata come Mario Valeriani e Giacomo Manzù.

I gruppi folk di Alatri e Atina portarono, con le loro danze e i loro costumi una ventata di allegria oltre a far gli onori di casa all’interno dell’esposizione; si esibirono davanti al Palazzo al suono del tradizionale organetto che risuonò in tutta Via Nazionale.

Il traffico per qualche minuto si fermò, nessun reclamo, nessun clacson che suonava, anzi incuriosito il pubblico dei passanti approfittò per ammirare i costumi e godere di quelle danze cosi festose che non aveva mai visto. Dai finestrini degli autobus applausi e tanti “bravi!”.

Fu una festa dell’amicizia, della simpatia che univa le nostre contrade con Roma, ma fu soprattutto l’occasione per far conoscere a molti, compresi i turisti, un angolo suggestivo dell’Italia.…la nostra Ciociaria.

Il momento più bello fu la sera,  quando il nostro gruppo, insieme a quello di Atina e ad alcuni organizzatori tra cui il Comm. Biondi (con tanto di “bel figliolo” al seguito, entrato ovviamente nelle simpatie di tutte noi ragazze), ci ritrovammo a cena in una tipica trattoria romana nei pressi del Palazzo. Tavoli all’aperto, con tovaglie e tovaglioli a quadretti bianchi-rossi di stoffa, fiaschi di vino rosso e tanto buon cibo. Tra una portata e l’altra, tra un brindisi e l’altro si eleva il classico canto romanesco, (con una piccola, ma per noi sostanziale modifica) :  “fatece largo che passamo noi, sti giovanotti de st’Alatri bella, semo ragazzi fatti cor pennello…” e via di seguito mettendo da parte, per una volta, i nostri canti.

Una Roma pittoresca, la Roma di Rugantino che da lì a breve sarebbe arrivato sulle scene (Dicembre 1962). E noi ne sapevamo qualcosa, avendo fatto da poco una audizione al Sistina chiamati da Garinei e Giovannini per studiare costumi e danze in vista dello spettacolo. Trascorremmo una mattinata tra palcoscenico e camerini, ci sentivamo un po’ tutti attori e non riuscivamo a credere di essere “Al Sistina”. Oggi non farebbe più meraviglia, ma pensate a mezzo secolo fa, a quei giovani che da qualche anno si ritrovavano ad uscire ogni tanto dal paesello e per i quali ogni incontro aveva qualcosa di straordinario, oltre ad aggiungere esperienza e sicurezza alla loro vita. Dopo cena un giro nella Roma di notte e… ”tutto d’un tratto te trovi, Fontana de Trevi che è tutta pe te.

Un incanto, a noi sembrava di vivere come dentro una favola, l’eco di “Vacanze Romane” non era ancora spenta.  Una fontana del tutto naturale, in un contesto senza l’accesso numeroso dei turisti di oggi, bianca, illuminata e noi,  seduti lungo il bordo della vasca,  con i colori vivaci dei nostri costumi: il tutto degno di un acquerello dell’800, di una Roma sparita.

Si respirava un’aria magica che solo Roma, a quei tempi, poteva creare. Al ritorno, sul pullman, stanchi ma soddisfatti, con la testa reclinata sullo schienale o sulla spalla del vicino e un po’ malinconici, ma con quel poco di voce che era rimasta, ci venne spontaneo intonare:  “Arrivederci Roma, good bye , au revoir…”  sicuri che non ci saremmo mai  liberati delle emozioni provate.

di Anna Maria Fiorletta


 

 

Alatri nei tempi del paganesimo si divideva in nove carcìe o rioni, denominati Scurano, Cerere, Bacco, Flora, Venere, Spultina. La denominazione degli altri tre è andata smarrita; con il Cristianesimo i nove rioni furono convertiti in altrettante parrocchie, e ai tre mancanti si sostituirono quelle di S. Lucia, di S. Simeone, di S. Andrea.
Ciascun rione era presieduto da un Contestabile.
Con la divisione della città in due rioni, Civitavetere e delle Piagge, venivano eletti due Contestabili, uno per ciascuno di essi.
I Contestabili nelle feste, e in particolare in quella del Santo Protettore andavano in chiesa a far le loro comparse o parate con gran sfoggio di abiti e di gioie.
In seguito i Contestabili continuarono ad essere eletti solo per quel che riguardava la festa del Santo Patrono.

Quando nel 1584 Mons. Danti rinvenne il corpo di S. Sisto ne furono aggiunti altri due per i rioni più estesi, e raggiungevano il numero di tredici, dei quali quattro si sceglievano nelle Piagge e sette da Civitavetere.

La festa veniva celebrata nel seguente modo:

il martedì i quattro Contestabili (festaroli) delle Piagge, circondati da una turba di ragazzi, che con palme di olivi in mano gridavano: ”viva le Piagge”, da parenti, amici e curiosi andavano nella Chiesa della Donna, e celebrata la S.Messa, si spostavano verso Porta S. Pietro. Qui erano stati già portati cestoni e sacchi di rottami di terracotta, a tale scopo messi da parte nel corso dell’anno dai vasai che nelle Piagge hanno le loro officine. Arrivati lì i fanciulli gli adulti e le donne, vibravano incessantemente rottami e sassi contro un idolo in rilievo su una pietra delle mura ciclopiche che cingono la città, chiamato dal popolo Marzo (Marte), ma dagli eruditi si ritiene essere Priapo. Durante quell’insana lapidazione, era vietato alle persone di Civitavetere uscire dalla porta, poiché ne sarebbero rimasti malconci.
Con ciò volevano ricordare che quelli delle Piagge erano stati i primi ad abbracciare il Cristianesimo, e dileggiavano così quelli di Civitavetere per essere stati troppo attaccati ai loro idoli, ed aver abbracciato la vera religione assai più tardi.
Il resto del mattino era destinato alle bevute interrotte la sera innanzi. Dopo desinato, i Contestabili, gli invitati e le loro donne andavano in piazza per la processione delle Rote. Formati tanti cerchi ciascuno con la propria musica cominciava a ballare, quindi avviatisi per le strade della città, ballavano in cerchio. Stanchi si ritiravano in casa un po’ prima di sera poiché i Contestabili delle Piagge dovevano recarsi a casa del loro Sopracontestabile ed insieme andare ad ossequiare il Sopracontestabile di Civitavetere, e da qui muovere verso la Cattedrale.

Nell’entrare in chiesa i Contestabili sul popolo che li accompagnava, gettavano una specie di paste che chiamavano morselletti (biscotti con miele e nocciole), che venivano avidamente raccolti. Dopo i Vespri, il Vescovo dava il segnale d’inizio del ballo che si svolgeva nel portico davanti la chiesa. Sebbene all’inizio fosse “un tripudio di santa letizia”, cominciò dopo ad assumere forme indecenti, perciò le danze si spostarono nel piazzale a destra della cattedrale, dove i festaroli, chiesta prima la benedizione al vescovo, si distribuivano in tredici cerchi e danzavano con le donne che li avevano seguiti in chiesa. Dopo il ballo si andava a cena e poi di nuovo in cattedrale per la processione degli ignudi che usciva verso le due di notte. Era detta degli ignudi perché il popolo vi prendeva parte a piedi scalzi. Si portava in processione il Crocifisso accompagnato dal Podestà, dagli ufficiali e dai festaroli.
Alla fine, seguiva il popolo in mezzo al quale, uno intonava ad alta voce il rosario e la moltitudine rispondeva, interrompendo di tratto in tratto per cantare più forte il ritornello: “viva viva Gesù Cristo, la Madonna e Santo Sisto, San Gregorio appresso a isso; Santo Sisto Protettore sta pregando Nostro Signore per noi altri peccatori”.

Intanto la città era tutta illuminata e lungo le strade si accendevano grandi cataste di legna dette favoni, attraverso i quali saltavano i fanciulli. Ciò in ricordo del sacrificio dei fanciulli, che i nostri antenati ai tempi del paganesimo offrivano al Dio Saturno. Il mercoledì, giorno solenne di festa, non venivano organizzati balli profani, ma la festa patronale si celebrava con religiosa serietà: tutti si recavano in chiesa per la celebrazione della Santa Messa al termine della quale usciva la processione che si faceva “con pompa grandissima”. Il Santo veniva condotto a spalla , in ricco trono, da 24 uomini a piedi scalzi, per le vie principali della città in mezzo alle grida e alle acclamazioni di una folla immensa di cittadini e forestieri. Il magistrato avanzava preceduto dal vessillo comunale, seguito da altri nove piccoli vessilli che portavano impressi gli stemmi dei rispettivi rioni tra cui quello delle Piagge.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Notizie tratte da: D. Andrea Marini, Cenni storici popolari sopra S. Sisto I Papa e Martire ed il suo culto in Alatri, Foligno 1884

Quante volte abbiamo sentito : “Attent’, ca’  fai accòm gli asini d’ Belpaino!  magari per ammonire qualcuno dal non fare il passo più lungo della gamba?  Pubblichiamo un racconto di Amilcare Culicelli, sulle “gesta” di Bel Paino:

“Il nostro era un tipo piuttosto strambo, di mestire barbiere e in quanto tale  frequentava gente di ogni tipo,  persino “altolocata” ma questo avveniva soltanto in casa loro, e naturalmente,  ci teneva a far  bella figura!
Per distinguersi dallo “zoticume” usava un “eloquio” ricercato, metteva un “papillon” floscio, usava le chiroteche(1)  e se pioveva, copriva le scarpe con le ghette e apriva il paracqua. Quando andava a casa dei suoi clienti non “obliava” mai la “plaisanterie”(2)  per Madame!  Mentre lui faceva il suo lavoro,  si intratteneva appositamente per conoscere le ultime “novità”… e scoprire, magari,  che anche ella ne facesse parte.
Per il suo modo ricercato di vestire era stato soprannominato “Bel Paino” e le sue stranezze linguistiche erano lo spasso della gente che se le rilanciava pomposamente. Tra queste,  era rimasta celebre la sua frase rivolta a un contadino: “Appropinquati o villico e riaffibbiami, di grazia, queste mie staffe pendule che per il lungo andar si fecer prolisse.”
E si! Perché bisogna sapere che un bel giorno Bel Paino andò alla fiera, comprò un asinello e lo accessoriò di tutto punto: la sella, il sottopanza, le staffe e perfino la sonagliera e se ne andava trotterellando per il Trivio gustandosi la musica della sonagliera ritmata dal batter degli zoccoli sul basolato, sotto gli sguardi meravigliati della gente.
Ma l’asino, però mangiava!  finì l’estate ed arrivò l’inverno e solo a costo di sacrifici riusciva a comprare il fieno, ma le giornate troppo corte, non gli lasciavano il tempo di portare l’asino a brucare l’erba lungo i margini delle strade “fuor di porta”.
Cosi’, tanto per sfamarlo, quando poteva ed era sicuro che nessuno lo vedesse,  raccoglieva gli scarsi rimasugli delle verdure del mercato….ma purtroppo l’inverno era molto lungo…
Ed ecco l’idea di Bel Paino: sarebbe bastato insegnare all’asino a campare senza mangiare almeno per il resto dell’inverno! e…. ci si mise con impegno;
L’asino capì e collaborava;  cominciò a mangiucchiare di malavoglia le foglie gialle appassite e i torsoli di cavolo. Una mattina, finalmente per la gioia di Bel Paino, nemmeno annusò le tre o quattro foglie secche dei platani che la sera prima  gli aveva raccolto a Porta San Pietro: era fatta! esclamò.
Veramente, dopo qualche giorno gli sembrava che l’asino si comportava in modo strano e fosse un po’ patito “povera bestia” pensava “è rimasto chiuso per troppo tempo e forse si annoia. Alla prima bella giornata lo porto fuori.”  E venne una bella giornata di fine gennaio!
Tutto contento Bel Paino andò per sellare il suo asinello e lo trovò morto.
Non si dava pace e raccontava di quel suo asinello che aveva finalmente imparato a non mangiare ed era morto… chissa perchè!”

Amilcare Culicelli – fonte:  Forum Monti Ernici  – http://www.montiernici.it/index.php

1: Le chiroteche sono un paramento liturgico usato dai prelati durante una forma particolarmente solenne di celebrazione eucaristica del rito romano.
2: storielle, scherzi, allegorie

 

In questo secondo appuntamento  per suscitare curiosità, e forse,  interesse,  tratto dal libro “Alatri ed il suo vernacolo” di Padre Igino da Alatri, edizione pubblicata il 06/09/1986 per i tipi delle Arti Grafiche Tofani dalla Soc. Cooperativa Cultura e Territorio – Archeoclub, ecco alcuni termini del nostro dialetto che derivano dal latino:

 

Abballe = ad vallem = giù
Addòrmo (‘m) = addormio = addormentarsi –
Addutto, araddutto = adductus = diventato (es Accome te si raddutto!)
Aécco = heic = qui
Aésci= istic = costi
Affucià = ad fauces (manicarum) = risvoltar le maniche
Alà = alare = emetter fiato
All’addónca = ad unguem = alla fine
Allòco = ad locum = là
Ammónte = ad montem = su
Aósia = audio = ascolto
Appédi = ad pedem = a piedi
Appettecà = ad pectum = arrampicarsi
Appilà = appilo = otturare
Appò = appono = vincere
Appòggi = ad podium = appoggio
Appugli = ad pullos = al nido
Appuntà = ad punctum = fermarsi, far punto
Ara = area = aia
Arbiri = arborem = albero
Arciòla = ureculum = brocca
A sinno = ad sígnum = ubbidiente
Assógno = axungia = sugno
A tamménte = dat mentem = contempla
Awé = ah, vae! = olà!
Cérwo = acerbus = immaturo
Cèse = caesae = bosco tagliato
Cétto = cito = presto (es. addumane cétto)
Chélla = quae illa = quella
Chénch’è = quamquam est = qualunque cosa sia
Chéssa = quae ista = questa
Chigli = qui ipsi = quelli
Chiówo = clavus =chiodo
Chisso = qui ipsa = codesto
Chisto = qui iste = questi
Cici = cicer = cece i
Crà = cras = domani
Créddo = credo = momento
Cróglia = corolla = corona di stoffa da porsi in capo per tenere dei pesi
Cuna = cunae = culla
Cutricchia = cutricula = conchiglia
Déneglibbera = Deus ne liberet = Dio ce ne liberi
Fèce = fecem = feccia
Finimunno = finis mundi = finimondo
Gliubro = delubrum = pantano
Gliótta = gutta = goccia
Innaro = januarius = gennaio
Inòtte = hac notte = questa notte
Itèrza = die tertia = laltro giorno
Ito = itus = andato
Iugo = iugum = gioco
Lancèrta = lacerta = lucertola
Lappucci = laputium = orlo
Marmora = mannor = marmo
Nèca = nequam = loglio (es. èruaneca)
Pède = pedem = piede
Pète = petere = elemosinare
Piscrà = postcras = posdomani
Puigli = pugillum = manata
Ranónchia = ranuncula = ranocchia
Razzelà = rapere = raccogliere in fretta
Recétto = receptus = rifugio
Répo = repo = pruno rampicante
Róscia = roseo = rosso
Runci = runcus = roncola
Scélla = ascella = ala
Scèrno = discerno = veder bene
Siwo = sevum = sego
Spaso = ex pansum = spiegato
Suleco = sulcus = solco
Tuto = tutus = preso, assicurato
Uanno = hoc anno = quest’anno
Winchi = vinculum = legaccio
Zico = exiguum = poco

 

 

 

Il libro “Alatri e il suo vernacolo” di Padre Igino da Alatri, edizione pubblicata il 06/09/1986 per i tipi delle Arti Grafiche Tofani dalla Soc. Cooperativa Cultura e Territorio – Archeoclub, offre molti spunti che definiscono meglio sia il nostro dialetto che parte della storia popolare della nostra città. E’ stato bello riscoprirlo e per questo, tanto per suscitare curiosità (soprattutto a chi non ne conoscesse l’esistenza) riportiamo alcune curiosità: la prima sugli studi della dialettologia alatrina (questa) e  la prossima, dove elencheremo alcune parole di dialettali di uso comune (e altre, ahinoi, desuete) derivate dal latino.

L’opera del p. Igino da Alatri e gli studi di dialettologia alatrina

Alatri, l’antica Alatrium (o Aletrium), importante centro dei “sassosi”  Ernici (Hernici dicti a saxis quae Marsi herna dicunt), così Paolo Diacono nell’epitome di Festo (1) , gode di un primato forse ben poco conosciuto anche presso gli ”addetti ai lavori” (anche quei pochi proprio di dialettologia laziale): il suo dialetto infatti è stato, fra tutti quelli delle località del Lazio di allora (2), il primo ad avere una descrizione scientifica delle sue forme e dei suoi fenomeni. Nel 1887,  Luigi Ceci, agli inizi della sua felice carriera di glottologo, pubblicava nel vol. X dell’ “Archivio glottologico italiano” (la prestigiosissima rivista di linguistica e dialettologia romanze, fondata dal ‘padre’ di queste discipline, il grande Graziadio Isaia Ascoli) il primo – e purtroppo, come vedremo, unico – dei suoi Saggi intorno ai dialetti della Cioceria (sic) (3), per l’appunto il Vocalismo del dialetto di Alatri (pp. 167-176).
Ma il nostro dialetto già a quest’ epoca non era del tutto sconosciuto agli studiosi: una dozzina di anni prima, approssimandosi il quinto centenario della morte del Boccaccio (che sarebbe caduto nel 1875), un erudito toscano, Giovanni Papanti, aveva avuto l’idea di raccogliere le traduzioni (da lui stesso sollecitate) nei vari dialetti italiani della novella nona della prima giornata del Decameron, quella della ”Dama di Guascogna e del re di Cipro” (4). Ne era risultato un grosso volume (di quasi 750 pp.), I parlari italiani in Certaldo alla festa del V Centenario di Messer Giovanni Boccacci (sic) (”In Livorno, coi tipi di Francesco Vigo”, 1875 – si cita dalla preziosa ristampa anastatica di Forni, Bologna, 1972), con oltre 600 versioni nei vari dialetti: fra queste, seconda in ordine alfabetico per la sezione della “Provincia di Roma” (5), la versione in dialetto di Alatri appunto, lunga ben due pagine fitte, e corredata di parecchie note, purtroppo a firma X – ma i corrispondenti del Papanti erano sempre degli eruditi locali, spesso ecclesiastici (e comunque, se non appassionati, per lo più interessati al dialetto natio).

 

1) 100 (e cfr. Serv. ad Verg. Aen VII 684)
2) Si ricorderà che sino al 1927 la Ciociaria (già Campagna) aveva il confine orientale ad ovest di Sora: Nello stesso anno 1927, essendo stata soppressa la provincia di Caserta (ricostituita in Campania nel luglio 1945, ma entro i confini più stretti) il Lazio aveva acquistato una ulteriore estensione anche verso sud, fino al Garigliano […] Una cinquantina di comuni entrarono a far parte delle provincia di frosinone, come Aquino,Arpino, Atina, cassino, isola del Liri, Pontecorco, Sora, ecc.
3)Si tratta evidentemente di una italianizzazione (toscanizzazione) del toponimo indigeno Ciociaria
4) Il Papanti aveva tratto l’idea da una raccolta analoga fatta a suo tempo (seconda metà del ‘500) da Lionardo Salviati
5) “soltanto nel 1927 l’unica vastissima provincia laziale fu divisa in quattro, cioè Roma, Viterbo, Frosinone e Rieti (R.Almagià, Lazio, cit.,p.9)

Dall’ album dei ricordi: cosi scriveva Alberto Minnucci*,  uno dei tanti “giovani” del Gruppo Folclorico Aria di Casa Nostra, nei quasi  settanta anni di attività:


<<Nel 1955, a primavera, andammo a Milano. Per molti di noi fu il primo viaggio di una certa importanza e lunghezza, scusateci.  La guerra, pur terminata da dieci anni si faceva ancora sentire; il boom era di là da venire; il più… ricco o fortunato dei «ciociari 55» era stato, per diporto su un motoscooter di seconda mano. Si trattò della prima grossa ed impegnativa trasferta del Gruppo Folclorico Alatrense. Nella capitale economica italiana era in corso una delle prime edizioni della nuova fiera campionaria. Ci esibimmo in uno stadio, non a San Siro, ma all’Arena. A presentarci al folto pubblico delle scalee fu un giovanotto molto elegante e dalla voce calda. Quasi nessuno lo conosceva. Ci dissero che era un dottore in legge e che si chiamava Enzo Tortora.  Anche il Gruppo, come il futuro presentatore TV era alle prime armi. Avevamo addosso una paura da far tremare il pur robusto palco. Cantammo ballammo. Ci fu prima silenzio e poi un uragano d’applausi «Forza mò…» ci sussurrammo, rinfrancati, ed esplodemmo nel salterello che i meneghini mostrarono di gradire molto di più dei compassati anche se perfetti balletti dei gruppi orientali. Il sole milanese, si sa, ad aprile è quello che è; ma noi riuscimmo a… scaldarlo. Il giorno successivo, tutti i giornali milanesi scrissero d’Alatri. Ricordo l’autorevole «Corriere della sera»: « …i ciociari d’Alatri si scompongono, pare che ognuno vada per conto suo, poi, improvvisamente, eccoli uniti, in una sfavillante policromia.
Il loro salterello ha fatto esplodere la Santabarbara dell’arena ».
Quando andammo in Fiera, il successo non fu minore. I nostri colori, gli ori e i coralli delle nostre ragazze fecero faville. Come attori fummo “richiesti” per centinaia di fotografie tra cinesi e neri. Dovevamo sorridere a tutti perché la Ciociaria ride di sole. Ma Dio solo sa con quale sforzo lo facemmo perché le ciocie del « 55 » erano…vere ciocie  (prese in prestito dai contadini) e quasi tutte erano strette o larghe ed i piedi, non abituati, ne soffrono ancora dopo vent’anni. La sfilata in Piazza Duomo, sotto la Madonnina: un ricordo davvero incancellabile! Quando il corteo entrò in Galleria fummo presi dallo spavento. Lo sapevamo cos’era la Galleria di Milano nei cui «caffè», a quell’ora, sedevano solitamente i più famosi scrittori, editori, attori, giornalisti, industriali e registi italiani. Era un pubblico d’eccezione, insomma, quello verso il quale andavamo incontro. «Forza mò…» ci sussurravamo e ricominciammo col salterello mentre lo storico campanaccio svegliava anche i più addormentati colombi delle più alte guglie del Duomo. E tutti ci applaudirono con passione e convinzione. Ma uno degli spettatori, un cameriere che serviva quegli uomini famosi, ci fece piangere. Approfittò di un momento di calma e di relativo silenzio e, brandendo il cabaret, «Evviva S. Sisto» urlò e scomparve tra gli eleganti abiti della Milano-bene. Dopo sapemmo che era un ragazzo della “Fiura” al quale avevamo portato un angolo di casa sua.>>
di Alberto Minnucci 10/07/34 – 25/05/95

*Per oltre 30 anni fu puntuale interprete dei bisogni della comunità locale nelle pagine de il Messaggero con collaborazioni con Avvenire. Memorabili le sue battaglie contro il potere: i lettori sapevano di poter trovare nelle sue cronache non solo fatti ma anche vere e proprie frustate di ribellione civile e contro il potere burocratico.
Per ricordarlo, nel 1996 fù stato istituito il Premio giornalistico Alberto Minnucci. Tra i giornalisti che hanno ricevuto il premio vi sono Bruno Vespa, Carmen Lasorella, Lilli Gruber, Enzo Biagi, Giorgio Tosatti.