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Una volta ad Alatri anche le fontane parlavano. Ora, aride, rinsecchite, danno mestizia e sete, sono mute.
All’ “angelone” di Santo Stefano hanno tappato la bocca con un bullone. La fonte di Piazza Rosa è stata divelta e, dicono, rubata. Per quella, scolpita come una campana, in un angolo esterno del grosso complesso architettonico di Santa Maria Maggiore, la conduttura dell’acqua deve aver perduto la via dello zampino, tanto è il tempo trascorso dalla sua disfunzione.
Quella che ricordo con particolare simpatia, per aver occupato tante ore di attenzione della mia fanciullezza, è la “Monumentale Fontana di Sant’Anna”. Dopo l’avara cena di quegli anni, accompagnavo da Via della Piazza alla sua minuscola abitazione di Vicolo San Simeone, zia Viruccia, che faceva la “pantalonaia” per Ercolino il Sartore, il quali, se qualcuno non lo sapesse, era mio padre. Arrivati a Sant’Anna, oltre una perenne ventata che veniva da Fumone, ci aspettata la fontana che aveva due narici da una delle quali zampilla va acqua in abbondanza e dall’altra… starnutiva. L’acqua usciva a stento, si tratteneva, borbottava e poi schizzava. Sembrava che avesse, insomma, un forte, eterno raffreddore. Tanto che quando l’indimenticabile maestro Sisto Martini, in quinta elementare, spiegò la poesia di Palazzeschi, “La Fontana Malata”, credetti (ma ancora lo penso) che il poeta si fosse ispirato a Sant’Anna.
Clof, clop, cloch
Cloffete
Cloppete
Clocchete…
“È malata, quella fontana, si lamentava Palazzeschi, alla tosse e tossendo fa tossire anche a me. Fatela tacere. altrimenti fa morire anche me”. Ed a Palazzeschi, in Alatri, hanno obbedito. Non solo per la monumentale Fonte di Sant’Anna, ma per tutte le altre.
Le Fontane di Alatri.
Di notte, quando su vicoli e stradine, coperti di silenzio e spennellati dalla luce di lampioni legati a fragili fili, s’erano acquietate le grida di bambini, esse riuscivano a parlare tra di loro. Rarissimi latrati di cani giungevano, ovattati, dalle greggi di pecore raccolti negli ovili di Squarcione a Colleprata.
Da dietro Le Mura si potevano gustare le notti lunari, quelle che d’inverno, facevano brillare le cime argentate di neve di Campocatino e della Monna.
Parlava allora la piccola fontana del Prato delle monache e le rispondevano quelle sottostanti di Baldassare e del Girone. Ed in quelle ore di quiete, sul divano, pare incredibile, i primi canti dei galli di Rampicano, sotto le screpolate mura del pubblico lavatoio.

 

Alberto Minnucci
“L’orologio ad acqua”, Alatri, 1993

Alatri nei tempi del paganesimo si divideva in nove carcìe o rioni, denominati Scurano, Cerere, Bacco, Flora, Venere, Spultina. La denominazione degli altri tre è andata smarrita; con il Cristianesimo i nove rioni furono convertiti in altrettante parrocchie, e ai tre mancanti si sostituirono quelle di S. Lucia, di S. Simeone, di S. Andrea.
Ciascun rione era presieduto da un Contestabile.
Con la divisione della città in due rioni, Civitavetere e delle Piagge, venivano eletti due Contestabili, uno per ciascuno di essi.
I Contestabili nelle feste, e in particolare in quella del Santo Protettore andavano in chiesa a far le loro comparse o parate con gran sfoggio di abiti e di gioie.
In seguito i Contestabili continuarono ad essere eletti solo per quel che riguardava la festa del Santo Patrono.

Quando nel 1584 Mons. Danti rinvenne il corpo di S. Sisto ne furono aggiunti altri due per i rioni più estesi, e raggiungevano il numero di tredici, dei quali quattro si sceglievano nelle Piagge e sette da Civitavetere.

La festa veniva celebrata nel seguente modo:

il martedì i quattro Contestabili (festaroli) delle Piagge, circondati da una turba di ragazzi, che con palme di olivi in mano gridavano: ”viva le Piagge”, da parenti, amici e curiosi andavano nella Chiesa della Donna, e celebrata la S.Messa, si spostavano verso Porta S. Pietro. Qui erano stati già portati cestoni e sacchi di rottami di terracotta, a tale scopo messi da parte nel corso dell’anno dai vasai che nelle Piagge hanno le loro officine. Arrivati lì i fanciulli gli adulti e le donne, vibravano incessantemente rottami e sassi contro un idolo in rilievo su una pietra delle mura ciclopiche che cingono la città, chiamato dal popolo Marzo (Marte), ma dagli eruditi si ritiene essere Priapo. Durante quell’insana lapidazione, era vietato alle persone di Civitavetere uscire dalla porta, poiché ne sarebbero rimasti malconci.
Con ciò volevano ricordare che quelli delle Piagge erano stati i primi ad abbracciare il Cristianesimo, e dileggiavano così quelli di Civitavetere per essere stati troppo attaccati ai loro idoli, ed aver abbracciato la vera religione assai più tardi.
Il resto del mattino era destinato alle bevute interrotte la sera innanzi. Dopo desinato, i Contestabili, gli invitati e le loro donne andavano in piazza per la processione delle Rote. Formati tanti cerchi ciascuno con la propria musica cominciava a ballare, quindi avviatisi per le strade della città, ballavano in cerchio. Stanchi si ritiravano in casa un po’ prima di sera poiché i Contestabili delle Piagge dovevano recarsi a casa del loro Sopracontestabile ed insieme andare ad ossequiare il Sopracontestabile di Civitavetere, e da qui muovere verso la Cattedrale.

Nell’entrare in chiesa i Contestabili sul popolo che li accompagnava, gettavano una specie di paste che chiamavano morselletti (biscotti con miele e nocciole), che venivano avidamente raccolti. Dopo i Vespri, il Vescovo dava il segnale d’inizio del ballo che si svolgeva nel portico davanti la chiesa. Sebbene all’inizio fosse “un tripudio di santa letizia”, cominciò dopo ad assumere forme indecenti, perciò le danze si spostarono nel piazzale a destra della cattedrale, dove i festaroli, chiesta prima la benedizione al vescovo, si distribuivano in tredici cerchi e danzavano con le donne che li avevano seguiti in chiesa. Dopo il ballo si andava a cena e poi di nuovo in cattedrale per la processione degli ignudi che usciva verso le due di notte. Era detta degli ignudi perché il popolo vi prendeva parte a piedi scalzi. Si portava in processione il Crocifisso accompagnato dal Podestà, dagli ufficiali e dai festaroli.
Alla fine, seguiva il popolo in mezzo al quale, uno intonava ad alta voce il rosario e la moltitudine rispondeva, interrompendo di tratto in tratto per cantare più forte il ritornello: “viva viva Gesù Cristo, la Madonna e Santo Sisto, San Gregorio appresso a isso; Santo Sisto Protettore sta pregando Nostro Signore per noi altri peccatori”.

Intanto la città era tutta illuminata e lungo le strade si accendevano grandi cataste di legna dette favoni, attraverso i quali saltavano i fanciulli. Ciò in ricordo del sacrificio dei fanciulli, che i nostri antenati ai tempi del paganesimo offrivano al Dio Saturno. Il mercoledì, giorno solenne di festa, non venivano organizzati balli profani, ma la festa patronale si celebrava con religiosa serietà: tutti si recavano in chiesa per la celebrazione della Santa Messa al termine della quale usciva la processione che si faceva “con pompa grandissima”. Il Santo veniva condotto a spalla , in ricco trono, da 24 uomini a piedi scalzi, per le vie principali della città in mezzo alle grida e alle acclamazioni di una folla immensa di cittadini e forestieri. Il magistrato avanzava preceduto dal vessillo comunale, seguito da altri nove piccoli vessilli che portavano impressi gli stemmi dei rispettivi rioni tra cui quello delle Piagge.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Notizie tratte da: D. Andrea Marini, Cenni storici popolari sopra S. Sisto I Papa e Martire ed il suo culto in Alatri, Foligno 1884

Gli Statuti comunali, di grande importanza per lo studio topografico dell’abitato, oltre ad essere una ricca fonte di notizie ed indicazioni su palazzi, case e chiese di cui spesso non rimane che il toponimo, sono una testimonianza fondamentale per capire l’organizzazione civile ed amministrativa della città.

Alatri era divisa in due zone: la Civitas Vetus e le Plagae. Con il nome di Civitas Vetus si intendeva genericamente la parte nord-ovest della città, dove si svolgeva l’antico abitato romano, mentre era chiamata Plagae la parte a sud-est dell’acropoli, dove il terreno era più scosceso e friabile.

La zona delle Plagae era costituita da quattro carcìe (quartieri):
S.SIMEONE: compare nei documenti del XIV secolo dell’Archivio di Trisulti, una volta a proposito della vendita di alcuni casaleni, poi per l’acquisto di gelseti posti in questa zona; vi è infine la notizia riguardante un certo Cicco Petrucci, che in cambio di una terra, ricevette dal Monastero di S. Bartolomeo di Trisulti, una casa con ferraginale nella carcìa S. Simeone. Di questa zona rimane il toponimo nell’odierna via S. Simone.
S.ANDREA: la carcìa è nominata in un documento del 1308 a proposito di ferraginalia posti iuxta muros civitatis in carcia S. Andrea.
SPEDINI e S. LUCIA : di queste carcìe non rimane alcun documento.

La zona rappresentava  il quartiere povero della città.
Dalla posizione stessa in cui si trovava, sul lato più scosceso del monte, in forte pendenza, si può facilmente immaginare che nei periodi di pioggia gli stretti vicoli, che si dipartivano dall’asse principale, con un groviglio di scale, si trasformassero in torrentelli di acqua e fango carichi della sporcizia delle zone più alte.
Il tessuto urbano, fitto e compatto si è andato sviluppando lungo l’asse principale, l’odierno corso Garibaldi, ed intorno alle chiese di S. Silvestro, S. Lucia, S. Andrea e S. Simeone, lasciando una larga fascia disabitata lungo le mura urbane dove dovevano esservi orti ed appezzamenti di terreno
(nei documenti si parla di ferraginalia e gelseti).
Nella stessa zona dovevano trovarsi le chiese di S. Simeone e  S. Lucia, dalle quali prendevano il nome le due carcìe omonime. L’ubicazione di queste due chiese è incerta. L’odierna chiesa di S. Lucia, infatti, in una mappa urbana di Alatri del 1819 è indicata con il nome di S. Simeone.
Sempre nella stessa mappa, presso corso Garibaldi, su vicolo della Campana, è segnalato con la lettera “S” un edificio religioso detto chiesa ex parrocchiale di S. Lucia e con la particella “R” è segnalato il cimitero della chiesa stesso.
In un’altra mappa urbana di Alatri del 1875, il tratto di corso Garibaldi adiacente all’edificio siglato “S” compare con il nome di via S. Lucia, mentre la strada che porta alla piazza con l’odierna chiesa di S. Lucia è nominata S. Simeone.
Vi è la certezza quindi che le chiese dovevano essere due, in quanto, oltre alle sigle che troviamo nelle piante, nelle decime degli anni 1328-29 si nomina l’ecclesia S. Lucie e l’ecclesia S. Symeon de Alatro. Data la collocazione dubbia della chiesa di S. Lucia, anche il trivium Sancte Lucie, dove nei giorni di mercato omnes piscarii aut pisciovenduli…possint…pisces portare ad trivium, non è ben identificabile.

Della chiesa di S. Andrea non è rimasto che il nome in una piazzetta in fondo a corso Garibaldi; la chiesa doveva affacciarsi proprio sul trivium Sancti Andree.

Un’altra chiesa, situata quasi nel mezzo delle Piagge, è quella di S. Silvestro. La chiesa conserva ancora una cripta del X-XI sec., epoca a cui si deve far risalire la sua edificazione.
Dalle Piagge si accedeva alle campagna tramite le due porte S. Nicola e Portadini.

Nella zona delle Piagge gli edifici erano prevalentemente di architettura modesta, di una tipologia edilizia molto semplice rimasta immutata per secoli, tanto da rendere problematico il riconoscimento delle strutture medioevali.  Queste case venivano costruite molto rozzamente con blocchetti di calcare irregolari misti a malta e raramente ci si trova di fronte ad edifici sicuramente databili. Due erano le tipologie dominanti: l’edificio ad uno o due piani con profferlo d’entrata ed ambiente sottostante e l’edificio a più piani con due ingressi a livello stradale.
La zona ha subito grossi danni durante la guerra.
Notevoli sono stati i cambiamenti della viabilità originaria.
Lo sventramento di numerose case, a causa della guerra, forma degli spiazzi una vola inesistenti; si notino, inoltre, la demolizione della chiesa di S. Andrea, dove oggi si apre una piazza, e la costruzione di una nuova strada che passa dietro alla chiesa di S. Silvestro. La zona, invece, che mantiene ancora abbastanza intatta la sua antica conformazione è quella presso la porta S. Nicola, dove si trova il vicolo Morutti. Il nome di questo vicolo derivato da “Mura rotte”, deriva da una breccia nelle mura poligonali praticata durante una invasione nemica nelle vicinanze del vicolo.

Notizie tratte da:
ELISABETTA DE MINICIS, Alatri in Lazio Medievale, ricerca topografica su 33 abitanti delle antiche diocesi di Alatri, Anagni, Ferentino, Veroli, Roma 1979, pp. 1-23.

A metà del secolo scorso un viaggiatore scriveva:

….La strada scendeva quindi dolcemente nella fertile campagna di Alatri, e finalmente dopo aver girato una collinetta vidi dinanzi a me questa interessante città. […]
Alatri è il centro principale di industria e di commercio dei monti Ciociari, vi si fabbricano stoffe, tappeti, coperte di lana, e quelle giubbe e quei cappelli a punta che sono tanto in uso in tutto il Lazio.
Il giorno in cui arrivai, c’era mercato. Le strade e le piazze, ingombre della frutta d’agosto, fichi, pesche, albicocche e grosse pere, offrivano un lieto spettacolo ed erano gremite di gente”.

[GREGOROVIUS, Passeggiate per l’Italia, Roma 1906, vol. I, p. 102]

Intorno al 1820 vi erano ad Alatri quarantadue imprenditori lanieri, e i dati di un censimento realizzato dall’amministrazione pontificia, parlano di una trentina di insediamenti produttivi, molti dei quali superavano decisamente le dimensioni del laboratorio artigianale, con un numero di operai prossimo al migliaio, ossia al 12% della popolazione complessiva di Alatri.

Agli inizi del Novecento la tradizione artigianale a livello “domestico “costituiva per le donne alatrine la fonte primaria di guadagno e non c’era casa in cui non ci fosse un telaio.
La strada delle Piagge, che dal centro scende fino alla parte più bassa del paese, era detta anche delle tesserèlle (tessitrici); gli anziani ricordano ancora il sonoro ticchettio che poteva sentire, a tutte le ore del giorno, chiunque percorresse certe strade del centro storico. (…)

La città nel Medioevo si divideva in due grandi circoscrizioni, le Piagge (suddivise in: Spidini, Santa Lucia, Sant’Andrea e San Simone) e Civitavetere (suddivisa in : Fiorenza, Vineri, Colle, Scurano e Valle). (…)
La forte richiesta dei prodotti d’uso più ricorrenti fece fiorire numerosi e svariati laboratori artigianali. Anche se attualmente non esistono toponimi indicatori, è da ritenere che gli artigiani operanti nello stesso settore fossero concentrati in zone ben definite della città: così i cocciari avevano i loro laboratori nel tratto compreso tra le chiese di Santa Lucia e di San Silvestro, per via delle numerose piazzette che permettevano al sole l’essiccamento dei manufatti.(…)

Forte di una secolare tradizione, la tessitura, tra le varie attività artigianali locali, oltre che a livello domestico cominciò, “eccitata dal lucro che gli arpinati facevano coi loro panni posti in commercio nella Provincia”, ad essere esercitata anche in alcuni laboratori organizzati su scala più ampia, anche grazie all’apporto di alcuni “esperti” provenienti da Arpino (Francesco Marino e Baldassarre De Rubeis) e da Isola di Sora (Generoso D’Orazio); questi stabilimenti, dove veniva lavorato e tinto quello che divenne il famoso “panno di Alatri”, erano situate tra il rione Scurano e le Piagge.

In un primo momento vennero prodotti solo “panni bassi”, ovvero non più alti di due panni e mezzo, di fattura rustica e grossolana, adatti ad un mercato poco esigente; in seguito, però, iniziò la produzione di “panni fini”, all’uso di Arpino, alti non meno di cinque palmi. Alla base di questo salto qualitativo stava da un lato il divieto di acquistare tessuti provenienti da fuori, e dall’altro la costruzione (1726-27) dello stabilimento della famiglia Tofanelli che effettuava lo spurgo e la gualcatura delle pezze. In questo periodo le manifatture tessili di Alatri ”si vendevano nelle fiere di Anagni, Segni, Valmontone, Velletri, Ceccano, Ceprano, Monte San Giovanni e Terra di Banco.

I più antichi insediamenti produttivi di cui si ha notizia risalgono alla prima metà del Settecento, e sono:

  • tre dal 1724 (proprietari erano tre diversi Vinciguerra: Giovanni Battista, Bernardo e Sebastiano);
  • altri due dal 1734 (proprietari: Giuseppe Villa, Luigi Pomella);
  • altri due dal 1744 (proprietari: Pietro Di Fabio, Geltrude Tagliaferri);
  • altri cinque dal 1754 (proprietari: Anastasio Martufi, Giovanni Martufi, Antonio Volpari, Giovanni Di Fabio, Sisto Paolo Squilla).

Sul finire del secolo, poi, ad Alatri erano in funzione ben 44 fabbriche, contro le 56 attive a Roma; nel 1796 sono stati censiti circa 90 telai per lana.
Nel 1820 i fabbricanti di drappi di lana erano 42, tutti patentati, come confermato dai registri dell’Ufficio del Bollo.
Nel 1829 c’erano ad Alatri “numerose fabbriche” che impiegavano circa 3000 operai producendo annualmente circa 2000 pezze di panno; nel 1831, invece, erano occupati nella produzione laniera due terzi degli uomini validi, su una popolazione di circa 9000 abitanti. Ancora nel 1849 risultano “non pochi” gli “industriali” impegnati nella produzione laniera.(…)

A contribuire all’estinzione dell’arte della lana ad Alatri è stato un terremoto che, nel 1915, ha distrutto la zona delle Piagge, ove era concentrato il maggior numero di telai; le case furono ricostruite, ma i telai non furono rimpiazzati.(…)

Giovanni Minnucci, discendente di una famiglia di “cordari”, aggiunge che da sempre gli artigiani alatresi sono stati carenti quanto a mentalità imprenditoriale, né mai hanno sperimentato forme di cooperazione o di associazione tra piccole imprese, nemmeno negli anni in cui fiorivano in tutta Italia consorzi artigianali nei più diversi ambiti produttivi. Segnala che nel 1902 ad Alatri erano in funzione una gualchiera con 2 operai per 180 giornate/anno, dieci “fabbriche di tessuti misti” con 77 operai per 280 giorni /anno, e una tintoria con 3 operai per 100 giorni/anno.

 

Notizie tratte da:

GENI COSTANZO, Aspetti della Politica industriale pontificia tra XVIII e XIX secolo: il caso di Alatri (tesi di laurea in Storia economica, Università degli studi di Cassino, facoltà di Economia e Commercio, Anno Accademico 1995-96)