Il giorno di San Giuseppe

Grazie alla disponibilità di Americo Di Fabio un racconto della Giornata di San Giuseppe del lontano 1942.
La sua ferrea memoria ci riporta a momenti di vita vissuta, con il suo scritto chiaro e scorrevole.

Dipinto che ritrae San Giuseppe che regge in braccio il bambinello
Il giorno di San Giuseppe di tanti anni fa! Era il 19 marzo 1942……

Da due anni l’Italia era entrata in guerra e i generi alimentari erano razionati e distribuiti mediante le tessere annonarie;  tra quei generi alimentari, soprattutto l’olio era limitato: mezzo litro al mese per famiglia.

Ma quel giorno, nella casa al numero civico 1 di Vicolo Vezzacchi, adiacente alla mia abitazione, ce n’era in abbondanza perché era stata recapitata una lattina di cinque litri niente meno che dall’isola di Rodi, inviata alla moglie, Giuseppina Cianfrocca, dal marito Guido Caporilli, richiamato sotto le armi ed in servizio in quell’isola, con il grado di capitano dell’esercito.
Il “corriere” era stato un soldato, anch’egli di Alatri e di stanza a Rodi, tornato in licenza in occasione della morte del padre.

Fu l’occasione per festeggiare l’onomastico della signora Giuseppina che, pur residente a Roma, in quel periodo si era trasferita ad Alatri, nella casa di famiglia, con i figli Lidia e Luigino.
Tutti familiarmente la chiamavamo “Peppinella”.

Peppinella,  pensò di condividere quella insperata abbondanza di olio con noi, chiedendo a mia madre di preparare le frappe e di friggerle in casa nostra. Per l’ora della merenda, verso le 15:30, ci ritrovammo tutti nella grande sala da pranzo dei Cianfrocca a mangiare le croccanti e deliziose frappe: erano tantissime ma in un quarto d’ora sparirono. Con quella fame!
Eravamo almeno quindici persone,  perché nella casa paterna, era tornata anche la famiglia di una sorella di Peppinella, Mariannina, con l’anziana madre Paolina.

Dalle 16 alle 17 il rito dell’accensione del falò di San Giuseppe (in dialetto lo chiamavamo “favone”) si svolse non più nello slargo di Via Vineri ma all’ingresso di Piazza Regina.
Mi ricordo che al culmine della catasta di legna c’era una vecchia seggiola che tardò tanto a prendere fuoco. Poi qualcuno intonò, sulle note lente dell’inno alla Santissima Trinità, la conosciuta filastrocca : “San Gisepp’ vicchiaregli, cu n’ cinci d’ cappegli…..”, terminando, con ritmo più stretto : “zompa la valla , zompa gli foss’, San Gisepp’ è tutt’ gli nostr’”.

Mio padre, invece, quel giorno, con la banda cittadina, stava prestando servizio davanti alla chiesa di San Gennaro dove era venerato San Giuseppe.

Io ero rimasto con Luigino a giocare a palla, prima nel vicolo e poi dentro casa mia: era acceso il grande camino della cucina, la stanza era piena di fumo a causa del vento che lo rimboccava dalla canna fumaria; Luigino faceva una gran confusione, strillando e commentando ad altissima voce i suoi tiri alla palla.

Il finestrone che dava luce alla cucina era privo di vetri e fornito solamente di due grandi imposte: per facilitare la fuoriuscita del fumo i miei le avevano lasciate aperte.
E con il fumo usciva sulla strada anche l’odore residuato della frittura.

Un soldato tedesco forse in libera uscita (c’era un comando germanico ad Alatri con pochi soldati adibiti a funzioni logistiche), passando nel vicolo e attratto dal profumo, entrò in casa, proferendo una sola parola: “Rosticceria!”
Quindi si accomodò, sedendosi davanti al tavolo, senza più dire alcunché, aspettando, forse, che gli si presentasse un cameriere a chiedere l’ordinazione. Eravamo soli io e Luigino, in casa; i nostri familiari si erano intrattenuti nella casa dei Cianfrocca.

Non si era ancora fatta notte quando mio padre, Vincenzo, al termine del servizio bandistico, tornò a casa.
Indossava un trench nero ed il berretto della banda; lo strumento lo aveva lasciato nella sala prove: forse era un po’ euforico per qualche buon bicchiere di vino offerto dai parrocchiani.

Aprì la porta che dava sui tre gradini di accesso alla cucina, il cui pavimento risultava mezzo metro sotto il piano strada.
Rimase immobile sull’uscio, cercando di capire la presenza del tedesco. Questi, però, al cigolio dei cardini, si voltò bruscamente e alzatosi di scatto, salutò militarmente mio padre e gli sfilò davanti velocemente.
Mio padre, cogliendo la palla al balzo e intuendo l’equivoco, rafforzò il convincimento del tedesco, pronunciando le parole: “vai fuori!”

Il militare tedesco, fino allora tranquillo ed in attesa del servizio di rosticceria, lo aveva scambiato per un ufficiale di polizia, complice la “divisa bandistica”, e, temendo di essere richiamato dai propri superiori, si era affrettato a lasciare la nostra casa.

Pensionato, già dipendente comunale, classe 1930. E’ stato segretario politico della sezione cittadina della Democrazia Cristiana nei primi anni settanta del secolo scorso. E’ stato presidente dell’associazione bandistica “Città di Alatri” negli anni ottanta.
Appassionato di storia cittadina e di musica.
E’ la memoria storica di diversi fatti accaduti in città negli anni della sua infanzia, gioventù e maturità.

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