La Befana
La mia prima Epifania nel lontano 1936
Quando le fotografie conservate nello scatolone finiscono, rimane la memoria (finché si conserva) a riportare alla luce avvenimenti accaduti negli anni passati e persone vissute in tempi lontani.
Uno dei miei ricordi più vivi è quello della Befana del 1936.
Scese nel camino della casa di via Vinerinella quale la mia famiglia si era trasferita da poco, lasciando la prima residenza di vicolo Borgo dove ero nato. Attualmente la casa di allora ospita la sede di un circolo culturale: si componeva di due sole stanze, una al pian terreno (zona giorno) ed una al piano superiore (zona notte).
La sera della vigilia dormii nel lettone, ai piedi di mamma e papà; ma già alle prime ore del mattino sollecitavo mio padre ad andare a vedere al piano sottostante se la Befana fosse scesa dal comignolo.
Dopo un paio di tentativi andati a vuoto, finalmente mio padre mi disse che la Befana era arrivata ed aveva lasciato anche una sua fotografia. Scendemmo piano piano le scale e ci fermammo a metà a guardare da lontano il camino che, nella parte superiore esterna della cappa, era pieno di mandarini e arance; inoltre, vi pendevano delle calze riempite di qualche cosa da scoprire. Scesi gli ultimi scalini e, preceduto da mio padre, mi avvicinai per scoprire cos’altro avesse portato la Befana; e vidi una bella palla, un trenino ed un fucile che afferrai immediatamente, scappando lontano, dopo aver dato uno sguardo sbrigativo alla figura della Befana, rimasta incastrata all’interno del camino: era dipinta, su un cartone alto circa un metro e mezzo, con una bisaccia sulle spalle, con una banana ricurva all’ingiù come naso, tutta riccia. Veramente mi metteva paura!
Andai subito a chiamare il mio compagno di giochi, Sistino, di un anno più grande di me, che abitava in fondo al vicolo del Torrione e giocammo fino all’ora di pranzo. Gli domandai cosa la Befana, invece, avesse portato a lui e mi rispose che in casa sua la vecchina non poteva scendere perché non c’era il camino.
Rientrato a casa, non trovai più dentro il camino quella figura e mi misi ad ispezionare il contenuto delle calze. Vi trovai ancora qualche mandarino insieme ad un cartoccio di cenere e ad un pezzo di carbone.
Qualche anno dopo, quando ormai non credevo più alla Befana, mio padre mi fece conoscere l’autore del dipinto. Si chiamava Peppino Carinci ed era coetaneo di mio nonno Bernardo, classe 1874, di mestiere calzolaio.
Peppino, invece, era principalmente pittore/decoratore e aveva partecipato al restauro della Cattedrale del 1912, insieme ad altri suoi colleghi. Era davvero bravo a dipingere ed il disegno che mio padre si era fatto prestare per una notte, in effetti, aveva ben raffigurato la vecchina già presente nella mia immaginazione. Si era reso disponibile per quella sorpresa evidentemente perché era stato, anni prima, musicante della banda cittadina, insieme a mio padre. In quel periodo non vi suonava più ma lo ritrovai, nell’immediato dopoguerra, già ultrasettantenne, a frequentare le prove del complesso bandistico rinvigorito e diretto dal maestro Italo Ciarrapica: aveva risposto anche lui all’appello rivolto alle “vecchie glorie” dal maestro Gigetto Fiorletta, all’epoca pure segretario cittadino della Democrazia Cristiana.
Ma Peppino, nei periodi di poco lavoro come pittore, si arrangiava anche come pirotecnico. I fuochi, pochi alla volta, li preparava nel giardino della casa che si trovava in Via Roma. Nella festa patronale accendeva una batteria di mortaretti, offerta in genere dal sarto Arcangelo Cataldi, durante la sosta che la statua di San Sisto faceva in piazza, come è d’uso tuttora. La sera accendeva i bengala appesi alle colonne del palazzo comunale e sulla facciata del Conti Gentili, talvolta aiutato dal giovane nipote Peppino Mangiapelo. Mi ricordo che, da giovani liceali, assistemmo divertiti ad una causa giudiziaria, svolta nella pretura di Alatri, a carico di Peppino, citato da un tale, non di Alatri, per i danni ai pantaloni nuovi provocati da un colpo anomalo ricaduto a terra ancora acceso. Sapevamo, perché ce lo aveva anticipato, che al giudice, a sua discolpa, avrebbe detto: “e mica c’ero io dentro il colpo!”
Anni dopo, quando già lavoravo al comune di Alatri, un mio anziano e spassoso collega, Peppino Tamburrini, classe 1900, anch’egli musicante nonché suonatore di armonium, mi rivelò un’ulteriore attività svolta dallo stesso pittore della Befana: nel primo dopoguerra del novecento, all’inizio degli anni venti, aprì, in una stanza al pian terreno della sua abitazione, una sala di proiezione del cinema muto. Tamburrini veniva chiamato ad animare, con l’armonium, le scene salienti del film.
Tra i ricordi dell’infanzia ci sono parecchi cortei celebrativi che si snodavano per le vie cittadine. Me ne ricordo uno in particolare: per festeggiare la “nascita dell’Impero”, a seguito della guerra d’Etiopia, il partito fascista organizzò un corteo con la “testa del Negus” in cartapesta di enormi dimensioni, issata su un’asta di legno e portata in trofeo, avanti a tutti. Era ben fatta ed illuminata dall’interno in modo che la luce si propagasse attraverso i fori degli occhi e la bocca aperta. Non lo so ma ho sempre immaginato che anche questa piccola opera d’arte fosse stata realizzata da Peppino Carinci, l’autore della mia prima, indimenticabile figura di Befana.
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