La Chiesa di San Silvestro

 Sotto le bombe del 1944

Il 30 Marzo 1944 potevo morire sotto il bombardamento della chiesa di san Silvestro, ad opera di un aereo inglese.

Non so perché non stessi a scuola in quel giorno feriale (era giovedì). Forse era stata anticipata la chiusura delle scuole dal momento che si aspettava, da un momento all’altro, lo sfondamento del fronte di Cassino.

Avevo compiuto tredici anni e frequentavo la terza media. I miei genitori, sin dalla prima media, mi avevano affidato, per farmi seguire nello studio, al canonico Don Paolo Cipolla che mi aveva conosciuto negli anni in cui era stato parroco di Santa Maria Maggiore. Ora era tornato ad abitare nella casa di sua proprietà in Via San Silvestro, di fronte al piazzale antistante la chiesa omonima. Io avevo acconsentito a condizione che la sera fossi tornato a dormire a casa mia, in Vicolo Vezzacchi.

E così la mia giornata si svolgeva nel seguente modo. La mattina raggiungevo don Paolo verso le sette in via San Silvestro e lo accompagnavo a dir messa nella cappella dell’orfanotrofio Rodilossi dove le suore, dopo la funzione religiosa, ci servivano la colazione consistente, per me, in un latte macchiato, e, per don Paolo, in un caffè, senza zucchero, che, durante la guerra, si produceva con ingredienti più disparati (cicoria tostata, ceci, fagioli, ecc.): don Paolo, perlopiù, lo buttava in un vaso di asparagina posto al centro del tavolo. Poi, di corsa, a scuola; al termine della quale, di nuovo, a San Silvestro dove svolgevo i compiti regolarmente rivisti da don Paolo. In aggiunta, mi impartiva, con sua soddisfazione, qualche lezione di francese che, all’epoca, non si studiava più nelle scuole (stando l’Italia in guerra contro la Francia), e i primi elementi di musica, con il solfeggio sul metodo Bona. La sera, ritorno a casa.

Il 30 marzo 1944, verso le undici, ero solo in casa, da don Paolo, e, precisamente, mi godevo il tiepido sole primaverile tra i vialetti del piccolo giardino, al cui centro si ergeva un albero di nespole del Giappone, alle quali non lasciavamo mai il tempo di maturare. Dal giardino guardavo un mio amico, Ennio Boezi, di un anno più grande di me, che stava a cavalcioni sul muro di recinzione del piazzale della chiesa di San Silvestro, seguendo le evoluzioni di un aereo inglese che, quasi ogni giorno, alla stessa ora, volava, indisturbato, sul nostro territorio.

Ad un certo momento, Ennio, tutto eccitato, mi gridò: “Ameri’, vieni fuori, sta facendo la picchiata!” Un attimo dopo sentii lo scoppio di due o tre bombe, lo spostamento d’aria mi sbalzò contro un muro coperto da un roseto e l’aria diventò nera e carica dell’odore acre della polvere da sparo.

Avevo perduto l’orientamento. Sentivo una coppia di anziani che invocavano a gran voce, ripetutamente: “San Sist’ mei, Madonna della Libera!”

Dopo un po’ l’aria si rischiarò e tentai di uscire sulla strada. Ma il portone principale era uscito dai cardini e fu necessario l’intervento delle persone che erano accorse sul luogo per rimuoverlo e farlo uscire.

La prima immagine che mi colpì fu quella di Ennio, riverso a terra, sui gradini di via San Silvestro. Due persone lo stavano sollevando per le spalle. Vidi la sua spina dorsale, troncata alla base, che grondava sangue. In un attimo era passato dal divertimento alla morte. Era deceduto sul colpo mentre stava cercando di allontanarsi andando verso casa.

Altre due persone erano morte e alcune rimasero ferite, compresa la nipote di don Paolo, Raffaella, che rientrava dalla spesa. Le trasportarono verso l’ospedale con mezzi di fortuna: una persiana divelta, una scala a pioli, ecc.

Grazie a Dio io ero rimasto illeso. Solo sulle gambe, perché portavo i calzoni corti, alcuni graffi provocati dal brecciolino del giardino sollevato dallo spostamento d’aria.

Nei giorni successivi, ripercorrendo le fasi dei movimenti effettuati nel giardino in quel giorno del bombardamento, trovai sulla parete del muro, contro cui ero stato spinto, una scheggia, grande come una noce, che era rimasta nella buca che essa stessa aveva scavato, quasi all’altezza della mia testa.

Fu una grazia, destino o una gran dose di fortuna ?

Pensionato, già dipendente comunale, classe 1930. E’ stato segretario politico della sezione cittadina della Democrazia Cristiana nei primi anni settanta del secolo scorso. E’ stato presidente dell’associazione bandistica “Città di Alatri” negli anni ottanta.
Appassionato di storia cittadina e di musica.
E’ la memoria storica di diversi fatti accaduti in città negli anni della sua infanzia, gioventù e maturità.

2 commenti
  1. Stefano Boezi
    Stefano Boezi dice:

    Sono il figlio di Claudio, fratello di Ennio Boezi la cui triste morte è descritta in questo racconto. Sono cresciuto sentendo ricordare spesso da mio padre questo tragico evento che ha segnato la sua vita e quella della sua famiglia di origine. Nei giorni successivi al bombardamento con tutta la famiglia si è trasferito a Roma. Aveva 8 anni ma il legame silenzioso con Alatri e le sue vicende è sempre vivo. In lui e in me e mia sorella.

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