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Il Natale a casa mia era come un pendolo che oscilla incessantemente tra un sano e genuino spirito natalizio e un “l’ faciam purché s’ tè da fa’”, passando per l’intervallo fugace, e per di più illusorio, della speranza di non svuotare il dindarolo come ogni anno alla tombolata con gli zii.
La preparazione degli addobbi, il sentirsi ogni anno più grande perché mancava sempre meno a riuscire ad arrivare a mettere il puntale sull’albero, quell’inspiegabile libidine che si provava nel premere il pallino rosso sul telecomando che, come per magia, faceva accendere tutte le lucine della casa, quella puzza di bruciato perché qualche lucina si era surriscaldata troppo e aveva mandato a fuoco il muschio nel presepe, le urla della nonna che inveiva contro il nonno con un sonoro “si più uttr’ di issi”…

Il giorno più bello per noi bambini era senza dubbio quello della Vigilia.
Il suono degli zampognari tra i vicoli di Alatri rendeva meno traumatica la sveglia di buon mattino perché tua madre, armata di parannanza e scopettone, ti veniva a svegliare per farti mettere in ordine la camera, ché la sera c’era gente.
Lo scambio dei regali, la recita della poesia e le mille lire sotto il piatto (che poi arrotondavi con qualche altro spiccio concesso dal nonno sottobanco), la saraca condita, il primo panettone (primo di una lunga ed interminabile serie) e poi tutti di corsa a messa, con l’ansia che Babbo Natale arrivasse prima del tuo rientro.

Se la mattina del 25, sotto l’albero, ti aspettava più di qualche sorpresa (perché Babbo Natale le tue letterine evidentemente le perdeva ogni anno), ciò che non era una sorpresa, puntuale come un treno in Giappone, era tua nonna che, alle sette di mattina, suonava alla porta con un piatto fumante di frittelle fatte con la pastella avanzata delle particelle fritte destinate al pranzo.

Dopo ore ed ore di devota preparazione, eccolo: il pranzo di Natale!

Quello che sai quando ti siedi, ma nessuno sa quando, se, ti alzerai da tavola; quel pranzo che ogni anno “so’ fatt’ propria du’ cosette” e poi appena arrivi la nonna ti mette davanti le già citate particelle di cime e baccalà per preparare la mandibola e la stracciatella col brodo di gallina per riscaldare lo stomaco. Ma non è festa senza timballo, che per l’occasione si è trasformato nell’Empire State Building delle leccornie. Ma du maccaruni co zic sughitt “legger legger” ‘n ci gli mitti?! Ma si, magna che va p l’anima dei morti!
E poi: il lesso della gallina già nominata prima (purché è puccat ittalla), l’arrosto misto, le patate, i broccoletti che “sgrassano”…dopotutto, chell che ‘n ‘ntorza ‘ngrassa!

Chi ce l’ha fatta arriva al dolce: il panpepato, gli struffoli, i quadrucci, i tartalicchi, le ciambelline ruzze azzuppate al vino di nonno, la ratafia casereccia, la genziana di zio, il limoncino del vicino, la tombolata con le lenticchie sulle cartelle, il panettone che ha portato la zia, quel comico di tuo cugino che grida “Ambo!” ed è uscito solo un numero, le lenticchie che si spostano in continuazione dalle caselle e qualcuno che chiede se il 23 è uscito, “Undici! Zeppetti”, le storie e le leggende della gioventù, di quando c’era la guerra e di quando si stava lontani da casa per il servizio di leva, quelle storie che ormai sapevamo tutti a memoria, ma che pagheremmo per sentirle ancora, quelle storie e quei ricordi che sono un modo per incontrarsi, per riviversi, per non perdersi e che a Natale, puntuali come lo era la nonna con le frittelle, tornano a galla e ti aspettano, a braccia conserte e con il piede martellante, sotto l’albero, tra panettoni e cesti regalo.

 

Giulia D’Alatri