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Con Direttiva del Presidente del Consiglio, datata 31 luglio 2019,  è stata indetta, per la data del 26 ottobre, la Giornata Nazionale del Folklore e delle Tradizioni Popolari. 

La Presidenza del Consiglio dei Ministri ha “invitato le Pubbliche Amministrazioni, anche con il coordinamento con gli enti ed organismi interessati, a promuovere l’attenzione e l’informazione sul tema del folklore e delle tradizioni popolari; nell’ambito delle rispettive competenze e attraverso idonee iniziative di comunicazione e sensibilizzazione”.

“Le tradizioni popolari – continua, quindi, il Presidente Conte – esprimono una cultura territoriale che costituisce eredità del passato da conoscere e di cui riappropriarsi. Rappresentando un patrimonio da recuperare e valorizzare in ciascun territorio regionale italiano, sono un strumento  indispensabile per fungere da volano per il turismo, con conseguenti ricadute positive di carattere economico”.

Sono elementi essenziali e costitutivi per una cultura territoriale.
Preziosa testimonianza e eredità del passato, è assolutamente indispensabile da parte di cittadini e Amministrazioni pubbliche conoscerle, tutelarle e, sopratutto, valorizzarle.

In un momento delicato come questo, in cui inevitabilmente lo sguardo si volge verso il “locale”, avvicinare le nuove generazioni allo studio e alla conoscenza del proprio patrimonio culturale, sia materiale che immateriale, sarebbe un gran passo avanti.

Infatti, la riscoperta e riappropriazione della cultura del territorio di riferimento stimola il confronto e gli scambi personali. Favorisce, poi, l’apertura a un dialogo anche a livello internazionale e interculturale, quando sarà possibile.

Ma non solo, le tradizioni costituiscono anche un’ottima occasione di sviluppo a livello turistico. Si parla sempre più spesso, infatti, di un turismo sostenibile e culturale, attento al rispetto del territorio e soprattutto orientato alla conoscenza di usi, costumi, credenze della popolazione di riferimento. Consegue, da qua, la possibilità di considerarne il valore economico, efficace anche in vista di un possibile sviluppo di territori e realtà solitamente poco frequentate, come quelle rurali.

Il Natale a casa mia era come un pendolo che oscilla incessantemente tra un sano e genuino spirito natalizio e un “l’ faciam purché s’ tè da fa’”, passando per l’intervallo fugace, e per di più illusorio, della speranza di non svuotare il dindarolo come ogni anno alla tombolata con gli zii.
La preparazione degli addobbi, il sentirsi ogni anno più grande perché mancava sempre meno a riuscire ad arrivare a mettere il puntale sull’albero, quell’inspiegabile libidine che si provava nel premere il pallino rosso sul telecomando che, come per magia, faceva accendere tutte le lucine della casa, quella puzza di bruciato perché qualche lucina si era surriscaldata troppo e aveva mandato a fuoco il muschio nel presepe, le urla della nonna che inveiva contro il nonno con un sonoro “si più uttr’ di issi”…

Il giorno più bello per noi bambini era senza dubbio quello della Vigilia.
Il suono degli zampognari tra i vicoli di Alatri rendeva meno traumatica la sveglia di buon mattino perché tua madre, armata di parannanza e scopettone, ti veniva a svegliare per farti mettere in ordine la camera, ché la sera c’era gente.
Lo scambio dei regali, la recita della poesia e le mille lire sotto il piatto (che poi arrotondavi con qualche altro spiccio concesso dal nonno sottobanco), la saraca condita, il primo panettone (primo di una lunga ed interminabile serie) e poi tutti di corsa a messa, con l’ansia che Babbo Natale arrivasse prima del tuo rientro.

Se la mattina del 25, sotto l’albero, ti aspettava più di qualche sorpresa (perché Babbo Natale le tue letterine evidentemente le perdeva ogni anno), ciò che non era una sorpresa, puntuale come un treno in Giappone, era tua nonna che, alle sette di mattina, suonava alla porta con un piatto fumante di frittelle fatte con la pastella avanzata delle particelle fritte destinate al pranzo.

Dopo ore ed ore di devota preparazione, eccolo: il pranzo di Natale!

Quello che sai quando ti siedi, ma nessuno sa quando, se, ti alzerai da tavola; quel pranzo che ogni anno “so’ fatt’ propria du’ cosette” e poi appena arrivi la nonna ti mette davanti le già citate particelle di cime e baccalà per preparare la mandibola e la stracciatella col brodo di gallina per riscaldare lo stomaco. Ma non è festa senza timballo, che per l’occasione si è trasformato nell’Empire State Building delle leccornie. Ma du maccaruni co zic sughitt “legger legger” ‘n ci gli mitti?! Ma si, magna che va p l’anima dei morti!
E poi: il lesso della gallina già nominata prima (purché è puccat ittalla), l’arrosto misto, le patate, i broccoletti che “sgrassano”…dopotutto, chell che ‘n ‘ntorza ‘ngrassa!

Chi ce l’ha fatta arriva al dolce: il panpepato, gli struffoli, i quadrucci, i tartalicchi, le ciambelline ruzze azzuppate al vino di nonno, la ratafia casereccia, la genziana di zio, il limoncino del vicino, la tombolata con le lenticchie sulle cartelle, il panettone che ha portato la zia, quel comico di tuo cugino che grida “Ambo!” ed è uscito solo un numero, le lenticchie che si spostano in continuazione dalle caselle e qualcuno che chiede se il 23 è uscito, “Undici! Zeppetti”, le storie e le leggende della gioventù, di quando c’era la guerra e di quando si stava lontani da casa per il servizio di leva, quelle storie che ormai sapevamo tutti a memoria, ma che pagheremmo per sentirle ancora, quelle storie e quei ricordi che sono un modo per incontrarsi, per riviversi, per non perdersi e che a Natale, puntuali come lo era la nonna con le frittelle, tornano a galla e ti aspettano, a braccia conserte e con il piede martellante, sotto l’albero, tra panettoni e cesti regalo.

 

Giulia D’Alatri

Tra le molteplici tradizioni della Ciociaria quella che incarna maggiormente lo spirito passionale e spensierato della nostra terra è, senza dubbio, la serenata prima delle nozze.

Immaginate che mentre state provando l’acconciatura per il grande giorno, o facendo l’ultimo orlo al vestito, una voce in lontananza, accompagnata da un organetto, vi inviti ad affacciavi alla finestra. Ebbene si, è il vostro futuro sposo che vi sta dedicando una canzone d’amore.

La serenata prima delle nozze è un’usanza che ha origine nel Medioevo ma che ancora oggi è praticata nel Centro e Sud Italia, ritenuta in alcune zone patrimonio culturale indispensabile.

Se per la sposa il tutto si svolge in un tanto frenetico quanto emozionante momento, per lo sposo l’organizzazione dell’evento richiede una pianificazione attenta ed elaborata. Ma attenzione! La sposa non deve accorgersi di nulla.

Un ruolo fondamentale per la buona riuscita della sorpresa, lo svolgono parenti e amici. Lo sposo, giorni prima della serata prescelta, arruolerà i suoi migliori “soldati” per accompagnarlo in questa impresa: scegliere chi distrarrà la sposa e selezionare le migliori ugola della sua compagnia, sarà una fase imprescindibile della preparazione.

Ci siamo, è giunta l’ora!

Lo sposo e tutti i partecipanti si sono dati appuntamento a pochi passi dall’abitazione della fanciulla e, complici il buio e la notte, arrivano “frugni frugni” (Ndr. quatti quatti) sotto la finestra della sua camera.

“Alzati bella mia se ti sei coricata
sopra a sto letto mettiti a sedere,
Ascolta chi ti fa la serenata
qua sotto c’è un ragazzo che ti ama,
[…]
Qui sotto c’è un ragazzo che ti vuole sposare
se tu lo vuoi gettagli una rosa”

Momento di suspense, la musica si ferma, tutti tacciono: la ragazza getterà la rosa? Certo che si!

A questo punto l’innamorato (se abbastanza fortunato da non dover raggiungere l’ultimo piano di un grattacielo) arriverà dalla sua ragazza arrampicandosi su una scala a pioli. Ora sono gli amici a cantare:

“Oh mia *nomedellaragazza* oh che bellezza
col fiore hai dato a *nomedelragazzo* la certezza,
Con questa rosa che hai buttato alla finestra
hai fatto si felice l’innamorato.”

Ma…

“Noi non vogliamo più star qua fuori
Se ci fai entrare ti canteremo ancora
quattro stornelli e ti ringrazieremo,
E ti ringrazieremo per festeggiare ancora
per festeggiare insieme questo amore.”

Ed ora? ” Mica vulet lassa’ tutta sta gent senza magna’…” Tranquilli, la mamma ciociara è all’opera da giorni.