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Come non ricordare Sor Flavio, il giorno della ricorrenza, con questa bellissima poesia dedicatagli dall’amica Marilena Lepori! 

‘Sta piazza stasera mê sémbra ‘ncantàta,
nê wò fa rêwiwê ‘na storia passata.

Èra da pócô finita la guèra:
cràlêmê amarê piagnéwa ‘sta tèra…

‘Nô alatrésê pêrò, ‘nê sê attèra ‘mmai:
sà sèmprê rêsórgi da tutti gli guai!

Scórta la famê, chélla più nera,
ariwà pê tutti la wita wéra…

I fu própria allóra, carô “sòr Flà”,
chê ‘sta cumpagnìa wulìsti crià.

Cu ‘mmani ‘nô òrghini pê ‘ncumênzà,
purê gli ciunchi facìsti ballà!

…Pandòra purtawa ‘nô fiascô dê winô,
cantènnê biweva, cu Scórcia i Peppinô…

…i déntrô ai canìstrô dê zia Sistinèlla
sèmprê ci stawa ‘na crustatèlla!

Pê tuttô gli munnô nê purtasti a ballà,
i pê fa cunósci ‘sta cara città,
purê déntrô a ‘nô film la wulisti ‘nfilà!

Mó tu, sòr Flà, nê stai a guardà:
i da chéllê stéllê wularisti calà…

Ma pê nua stai a écco, mésê a ‘sta gèntê,
sóttô a ‘sta luna chê parê d’argèntô.

Èccô sòr Flà, stannê a guardà:
‘nô sardarèllô mó iamô a ballà.

Battamô gli témpô cu gli tamburégli:
spêramô dê fa gli munnô più bégli.

Sarda i rêsarda, gli fiatô sê accórcia:
a tutti quanti gli mussô sê aróscia…

“Vola la spòla”, pê siguità…
…i méntrê sê canta, nê sê pò a tì nê pênsà!

È chésta l’artê chê nê si ‘mparatô:
grazzi “sòr Flà”, padrê nóstrô aduratô.

Gli munnô cammina, nê sê pò furmà:
mó attòcca a nua l’opêra téa siguità.

Tutta Alatri stasera tê wó rêcurdà:
i tu, da ésci ‘ncima, stalla semprê a guardà!

 

Al mio maestro  – Marilena Lepori

Il territorio di Alatri, confina con Frosinone quasi a ridosso della città capoluogo…ma… perchè è cosi?

La leggenda racconta che:

Bisognava stabilire definitivamente i confini tra Alatri e Frosinone, allora alcuni rappresentanti delle rispettive città decisero di fissare il confine nel punto di incontro tra due podisti, araldi delle rispettive città, con partenza al canto del gallo (allora non esistevano orologi sincronizzati che trasmettevano il segnale via etere !).
I Frusinati (Frusulunisi, per dirla “in cianfrica” [in dialetto]), tennero il gallo sveglio cercando di farlo cantare prima dell’alba, ma quello,  stanco,  si abbioccò.
Gli Alatresi, (forse più “scaltri”?) misero il gallo sotto un canestro;
Un paio d’ore prima dell’alba accesero dei lumi e tolsero il canestro. Il gallo vedendo tutto quel chiarore cantò. Quello “Frusulunese”  soltanto a sole levato cantò.
Ovviamente l’araldo alatrese giunse tanto lontano da raggiungere Frosinone.
In sostanza…il gallo, pur non facendo uova, come risaputo e scientificamente dimostrato, fece una bella frittata !

Ma perchè non citare un’altra versione della leggenda? Ed eccola pronta:

Per dirimere la controversia dei confini, gli abitanti di Alatri e Frosinone decisero che avrebbero fatto partire ognuno un gallo dalle rispettive città. Il confine sarebbe stato segnato nel punto di incontro delle due bestiole.
La notte prima della disputa, gli Alatresi portarono, senza farsi accorgere dai Frusinati, delle giovani gallinelle al recinto del gallo. Be’, il gallo fece il suo “dovere” (come recita uno stornello: “sapessi la virtù che c’ha il gallo, delle galline se capa la mejo, delle galline se capa la mejo, gli fa’ chicchirichi e monta a cavallo”) e al momento della partenza, sfinitto e stanco, non aveva molta voglia di correre!!

Pur se sospinto dalle grida dei frusinati fu surclassato dal giovin gallo alatrese (tenuto a “stecchetta”) fino ad arrivare all’attuale via Termini.

Essendo “leggende” c’è anche quella “piccante” !! No, no…. non pensate male!

È che si narra che gli Alatresi infilarono un peperoncino nel sedere del loro gallo che correndo disperatamente, incontrò l’avversario praticamente alle porte di Frosinone!

Sono solo storielle ….😉

 

 

(cit. Nazareno C. – Marilinda F. – Armando C.)

Se è vero che la musica è l’espressione della sensibilità umana e artistica, il saltarello è l’espressione della originalità assoulta dell’animo del popolo ciociaro. Fu questo stesso popolo infatti che iniziò a praticare canzoni d’amore e di ballo con l’accompagnamento di zampogne e fisarmoniche e dette così origine alla più antica e caratteristica danza del Lazio: il saltarello.

Già nel 1688 il poeta Giov.Camillo Peresio descrive le “movenze” di tale danza:

“…E il ballo fecer poi del saltarello al suon d’un chitarrino e un tamburello. de fronte preso da otto donne el posto otto sbarbati, e ognu’uno al bal deposto, la reverenzia in bella sfoggia sfila.
A un tempo, doppo van dè faccia accosto e presi pè le man ciascuno s’affila e il capoballo, cò un zompar giocondo serpeggia prima, e poi regira tondo”

Questo “zompar giocondo” di cui ci parla il Peresio diviene, nel corso dei secoli, l’espressione della sana allegria ciociara in occasione di sagre, di feste paesane, di fiere, di pellegrinaggi, e ancor più in occasione della seminagione, della mietitura e della vendemmia.

 Anna Maria Fiorletta. 

 

“Quattr!”, “Sétt!”, “Tutta!”

Un tumulto di numeri, braccia che sferzano l’aria, una frenetica danza di dita: questa è la morra.

L’origine di questo gioco si perde nella notte dei tempi, ma già in una tomba di un alto dignitario egiziano si nota chiaramente il defunto intento a stendere il braccio con un numero, contrapposto ad un altro giocatore. Tuttavia, è nell’epoca latina che si hanno le più chiare manifestazioni scritte: Cicerone riporta in un suo scritto la frase “dignus est quicum in tenebris mices”, ossia “è persona degna quella con cui puoi giocare a morra al buio”.

Ragazzi di ADCN che giocano a morra

Nonostante sembri un gioco semplice, il ritmo incalzante richiede un’elevata velocità di ragionamento: il giocatore deve mantenere la concentrazione, e in qualche frazione di secondo, deve essere capace di analizzare e prevedere il gioco dell’avversario. La morra può giocarsi fra due, quattro o più giocatori, purché di numero pari, in modo da poter formare due distinte squadre, poste una di fronte all’altra. I giocatori abbassano contemporaneamente il pugno destro, distendendo rapidamente una o più dita e gridando un numero tra 2 e 10. Se il numero indicato corrisponde alla somma delle dita distese (e il pugno chiuso vale 1), si segna un punto a favore di chi ha indovinato. Il punteggio da realizzare per vincere una partita viene concordato in principio dagli sfidanti, e di solito si sceglie tra due opzioni: la prima prevede due manches a 12 punti (con eventuale bella), mentre la seconda consiste in un’unica manche a 16 punti (a finì). La morra si gioca tendenzialmente con la mano destra, mentre i punti acquisiti si conteggiano con la sinistra. Realizzati 5 punti, i giocatori battono le mani per sanzionare la cinquina acquisita e per indicare l’inizio di un’altra (a proposito di questa scrocchiata di mano si usa dire “chi sculaccia non perde”).

 

In passato la morra era uno dei passatempi preferiti ma spesso, essendo oggetto di scommesse, scatenava risse. Nel XV secolo il gioco della morra venne bandito dai luoghi pubblici della Repubblica di Venezia. Oggi la morra è consentita ed è compresa tra le discipline riconosciute dalla Federazione Giochi e Sport tradizionali, associata al CONI. Resta comunque in vigore il divieto di gioco nei locali pubblici e nei circoli privati (dall’articolo 718 al 722 del Codice penale) in quanto è tutt’ora inserita nella tabella dei giochi proibiti.

di Alessio Iannarilli

 8 Settembre_ Madonna della Libera

Non esiste paese del mondo che non abbia una devozione mariana, persino nei paesi di tradizione islamica la Vergine gode di una venerazione profondissima dai fedeli musulmani.
In Italia non esiste paese che non abbia una piazza dedicata alla Madonna.
Non da meno è la nostra città. Ma direi meglio: la nostra terra che alla vetusta immagine della “libera” ha affidato, da sempre, le proprie fatiche e le proprie attese.
La nostra gente non ha trovato miglior avvocato che in questa madre dal volto tenero pronta ad ascoltare i gemiti dei propri figli. A lei il nostro popolo ha affidato perfino i frutti della terra portando in dono e confidando nel suo soccorso,  il giorno della vigilia, ortaggi e spezie.
Sono i frutti della gente di qua: povera, semplice e genuina capace di far famiglia e festa attorno ad una cipolla.
Tra le Feste di Alatri, l’8 settembre è quella a cui sono più legato perché ha mantenuto, a discapito del tempo, un profumo antico dove le radici e le origini dei nostri padri non si vergognano di essere messe in mostra sui banchi di contadini con le mani scavate e gli occhi di chi ha conosciuto la miseria.
Le cipolle, a ben guardare,  sono il segno dell’umiltà del nostro popolo. Il simbolo della fatica dei nostri padri. Il profumo asciutto della nostra gente.
Ai piedi di questa madre i nostri nonni hanno affidato le loro angosce e con fiducia, davanti a lei, non sono venuti meno alla propria fede: l’hanno tolta da un colonna e fatta regina di questa terra. L’hanno chiamata “Madonna della libera”  invocando,sotto assedi, pestilenze e guerre la consolazione della libertà.
A lei si sono rivolti i nostri nonni per ” chi pecca e per chi geme, per chi ha figli e non ha pane”, come hanno scritto nell’inno a lei dedicato. Nessuno di noi potrà mai negare a lei uno sguardo. Nessuno di noi ha il cuore così duro da non rivolgerle un saluto.
Anche chi fa a pugni con la fede sa di trovare in quegli occhi il sorriso di una mamma.

“Del nostro popolo presidio e onor” recita, ancora, la prima strofa dell’inno popolare.
Icona stupenda della venerazione della nostra Alatri che ha,  più del Santo patrono, promesso onore alla gran Madre di Dio, incoronandola “Regina” e protettrice.

“I nostri padri con Fede pia “- continua l’inno,  alla tua immagine “dolce Maria” hanno fatto ricorso togliendosi il cappello davanti a te.
Nominando una “valle” (Valle Santa Maria)  tuo feudo prediletto.
Ti hanno custodito come tesoro prezioso tanto da stabilire che la tua immagine fosse portata tra le strade ogni 50 anni.

La Madonna della libera è di più che una esperienza religiosa ma è la storia della nostra gente. L’icona della nostra storia.  La semplicità e l’umiltà dei nostri padri che avevano intuito che sono gli umili ad essere davvero grandi.

 

Gabriele Ritarossi

(ph. Website Fotografia97)

C’ho sulle spalle la responsabilità di una tradizione centenaria: me sento responsabile a mette ‘ste ciocie e ‘sto bustino, a appontà la mantilla co’ gli spilloni che, pure se non lo dico, la ciocca un po’ me la bucano;  n’è ‘na responsabilità che m’ pesa però, è ‘na cosa leggera.
È ‘na cosa che poi quando vado camminenn’ tutta ‘mpettita pe’ ‘ste stecche che porto in vita mi rende proprio fiera.
È ‘na cosa che quando passo ‘ncima a Civita vestita ass’sì, me fa sentì aggrappata a ‘sta terra mia che offre poco, ma che m’ha cresciuto.
È ‘na cosa che m’ fa pensà a nonnema, alla madre d’ nonnema, alla nonna d’ nonnema, perché loro, “a toll’ l’acqua alla Funtana Abbàll'”, ci ievan’ veramente!
E mi fa sentì ‘n’eletta perché io sto a continuà qualcosa.
Sto a continuà ‘na tradizione, sto a nutrì le radici delle mie origini, sto a permette a ‘sta pianta de continuà a cresce.
Non la sò trascurata, perché è ‘na specie de sigillo che tengo nel sangue.
È na responsabilità che mi fa riempì il cuore d’orgoglio, di voglia di fa, di scoprì.
Che mi fa rimanè a guardà le mura in contemplazione tutte le volte.
Che mi fa difende a spada tratta ‘sta città, che mi fa piange il cuore quando penso che forse, un domani, la devo salutà.
È ‘n impegno l’attenzione alla propria storia, ma è ‘n impegno che porto avanti co’ fierezza come non ho mai fatto co’ altro in vita mia.

 

Beatrice Bottini

Le Ciocie…

Quando te le leghi ai piedi ti rendi conto che non sei tu ad indossare loro, ma che sono loro a legarti a sé…
Le stringhe attorno ai polpacci infatti, ci legano e ci collegano al nostro passato fatto di gente buona, contadina, sincera; alle nostre tradizioni, ai nostri canti e balli ancestrali.

Certe volte capita che chi non le abbia mai indossate rida un po’ di noi che, anche oggi, tra lo smartphone e l’ipad, le indossiamo.
Fanno un po’ tenerezza, perché non capiscono quanto le tradizioni siano importanti e perché chi dimentica da dove proviene finisce per crescere come un albero senza radici.

Noi siamo fieri delle nostre radici, solide come le pietre della nostra Acropoli.
Noi abbiamo compreso che c’è una nobiltà profonda nel dichiararsi figli di gente semplice, nel portare in giro per il mondo canti e balli di una terra povera, ma che tramandano la dignità della vita dei nostri pastori e dei nostri contadini.

Abbiamo capito da tempo che siamo belli quando indossiamo i nostri costumi e nel mondo siamo davvero messaggeri della bellezza.

Vogliamo continuare ad essere degni dei nostri padri, ed è per questo che facciamo dell’ironia la nostra arma migliore, come facevano loro, che allontanavano il male e la noia con l’allegria degli stornelli cantati ad ogni buona occasione, perché ogni occasione è buona.

Abbiamo conosciuto migliaia di ragazzi di ogni parte del mondo, e in ogni parte del mondo ci siamo innamorati, abbiamo riso fino alle lacrime e abbiamo pianto fino a un nuovo sorriso con nuovi amici, perché il gruppo folk è una grande passione: passione per Alatri, per l’amicizia, per le tradizioni e per la musica.

E tutto questo lo dobbiamo a te… grazie Sor Fla’, e salutaci Pandora.

 

Achille Gussati

Eh sì, come ogni anno è arrivato agosto e la frenesia estiva, quella che profuma di folklore, è già da tempo nell’aria frizzantina: anche quest’anno siamo pronti, zaino in spalla, a conquistare la Spagna!

Gli oltre mille chilometri di distanza che ci separano dal golfo di Biscaglia non ci spaventano, state pur certi: dal 9 al 13 agosto saremo fieri rappresentanti del folklore ciociaro, ospiti della “XXXII edición del Festival Folklorico Internacional de Bermeo, nei Paesi Baschi.

¡Hasta pronto!

 

 

E’ estate.

Per chi, come me, è cresciuto nel gruppo folkloristico, l’estate rappresenta un richiamo inconfondibile. E’ in estate infatti che si concentra la stragrande maggioranza delle attività del gruppo.
E già dalla primavera, cominciano febbrili le telefonate, i contatti,  le riunioni. Dove si va quest’estate? Troviamo qualche festival? Il Festival di Alatri è confermato? E la sfilata a Ferragosto?
E si cominciano a riallacciare i contatti con le varie associazioni sparse in giro per l’Europa e per il Mondo, si cercano i festival migliori, si sondano presenze e si contano le adesioni.
La parte più bella di un’uscita è senza dubbio l’organizzazione. Cercare l’itinerario migliore, pianificare eventuali soste, assicurarsi che tutto fili liscio. Far spostare 40 persone,  fidatevi non è affatto cosa facile, ci vogliono dei mesi per organizzarsi. L’uscita va pensata, costruita pian piano, vanno ascoltati tutti i componenti e tutto deve essere organizzato nei minimi dettagli.  Per chi, come me, è cresciuto nel gruppo folkloristico e vive e lavora a centinaia di chilometri di distanza, questa situazione è ancora più sentita. Quando con amici e colleghi si inizia a pensare alle ferie, si prenotano viaggi e si cerca di evadere dalla routine della città e dal lavoro, resta sempre in mente una domanda.

Ma il gruppo, cosa fa?

E nonostante tutto, nonostante la lontananza, nonostante la vita ci abbia portato lontani e abbia parzialmente diviso le nostre strade, “l’uscita” resta sempre la prima opzione percorribile.
Perché,  quando è la passione ad animare un progetto, quando si deve la propria adolescenza e il proprio esser diventato adulti ad una causa, quel sottile filo rosso che ci lega all’associazione non si spezzerà mai, dovesse anche essere lungo 800 km.

E anche quest’anno, anche questa volta, per il mio quattordicesimo anno di fila, il gruppo cosa fa?

Per me la risposta non è mai stata più chiara.

 

Daniele Gussati